La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza del 30 maggio 2022, n. 17441 ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale della L. 25 febbraio 1992, n. 210, art. 1, co. 1, in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 Cost., nella parte in cui non prevede che il diritto all'indennizzo spetti anche ai soggetti che abbiano subito lesioni e/o infermità, da cui siano derivati danni irreversibili all'integrità psico-fisica, per essere stati sottoposti a vaccino non obbligatorio, ma raccomandato, antimeningococco.
Il fatto
La vicenda processuale trae origine dalla richiesta di riconoscimento dell’indennizzo ex art. 1, co. 1 e 2, L. 210/92 avanzata dai genitori di un minore che aveva subito um menomazione dell’integrità psico-fisica in consguenza della sottoposizione a vaccino non obbligatorio, ma raccomandato, antimeningococco.
I giudici di merito avevano accolto la domanda anche sulla base della c.t.u. espletata, che aveva riconosciuto il nesso di causalità tra la vaccinazione e la patologia del minore.
In particolare, la Corte d’Appello di Brescia, premesso che “la vaccinazione, rispondente ad un interesse della collettività, legittima l'obbligo imposto al singolo per un determinato trattamento sanitario ancorché comportante un rischio specifico, ma non postula il sacrificio della salute del singolo individuo per la tutela della salute degli altri”, ha rilevato che “il corretto bilanciamento fra la dimensione collettiva del valore della salute e la dimensione individuale implica il riconoscimento, all'avverarsi del rischio specifico, di una protezione ulteriore a favore del soggetto passivo del trattamento”. E, dunque, “la provvidenza indennitaria si giustifica quante volte il singolo abbia esposto a rischio la propria salute per la tutela di un interesse collettivo e ciò vale non solo per la vaccinazione obbligatoria per legge ma anche per quella raccomandata”.
Il Ministero ha proposto ricorso per cassazione deducendo, tra l’altro, la violazione dell’art. 1, co. 1, L. 210/92 per la avere la Corte d’Appello riconosciuto la tutela indennitaria in riferimento alla somministrazione di un vaccino non obbligatorio.
Il dato normativo di riferimento e i precedenti della Corte Costituzionale
Il dato normativo da cui muove la sentenza in esame è l’art. 1 L. 210/92, il quale riconosce un indennizzo da parte dello Stato in favore di “chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica”.
Su questa disposizione si sono registrati diversi interventi della Corte Costituzionale, sollecitata a pronunciarsi sull’estensibilità del diritto all’indennizzo in caso di lesioni conseguenti a vaccino non obbligatorio.
Tra queste, la stessa pronuncia in commento, rammenta le sentenze n. 27 del 4 marzo 1998 e n. 423 del 18 ottobre 2000 che hanno dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 1 L. 210/92 nella parte in cui non prevede l’indennizzo in favore di soggetti che hanno subito lesioni in conseguenza, rispettivamente, delle vaccinazioni antipolio e antiepatite B prima che le stesse divenissero obbligatorie.
Ancora di recente, la Corte Costituzionale, con sentenza 22 novembre 2017, n. 268 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 cit. nella parte in cui non prevede il diritto di indennizzo in favore di coloro che si sono sottoposti a vaccino antinfluenzale. La Corte, in particolare, muove dalla considerazione che “La ragione determinante del diritto all'indennizzo non deriva dall'essersi sottoposti a un trattamento obbligatorio, in quanto tale; essa risiede piuttosto nelle esigenze di solidarietà sociale che si impongono alla collettività, laddove il singolo subisca conseguenze negative per la propria integrità psico-fisica derivanti da un trattamento sanitario (obbligatorio o raccomandato) effettuato anche nell'interesse della collettività”. In questa prospettiva, incentrata sulla salute quale interesse obiettivo della collettività, “non vi è differenza qualitativa tra obbligo e raccomandazione: l'obbligatorietà del trattamento vaccinale è semplicemente uno degli strumenti a disposizione delle autorità sanitarie pubbliche per il perseguimento della tutela della salute collettiva, al pari della raccomandazione”.
Da ultimo, Corte cost., Sent. 23 giugno 2020, n. 118 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del primo comma dell’art. 1 L. 210/92 nella parte in cui non prevede il diritto a un indennizzo a favore di chi abbia riportato lesioni a causa della vaccinazione contro il contagio dal virus dell’epatite A.
Le ragioni di rilevanza della questione di legittimità costituzionale
La sentenza in commento ha escluso che possa pervenirsi alla affermazione dell’indennizzabilità in favore di coloro che si sottopongono alla vaccinazione (raccomandata ma non obbligatoria) antimeningococciga sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 1, co. 1, L. 210/92. E ciò anche sulla base della considerazione che i precedenti arresti dalla Corte Costituzionale si rifeiscono a vaccinazioni peculiari e non se ne può estendere l’applicazione oltre quegli specifici trattamenti.
La Corte di Cassazionerileva come l’art. 1, co. 1, L. 210/92 introdurrebbe una irragionevole “differenziazione di trattamento tra quanti si siano sottoposti a vaccinazione in osservanza di un obbligo giuridico e quanti, invece, a tale vaccinazione si siano determinati ottemperando alle raccomandazioni delle autorità sanitarie”. La sentenza, richiamando la citata sentenza n. 268/2017 della Corte Costituzionale, sottolinea la sovrapponibilità tra obbligatorietà e raccomandazione del trattamento, nella prospettiva della tuela della salute, con la precisazione che “la tecnica della raccomandazione esprime maggiore attenzione all'autodeterminazione individuale e, quindi, al profilo soggettivo del diritto fondamentale alla salute, tutelato dall'art. 32 Cost., comma 1, ma è pur sempre indirizzata allo scopo di ottenere la migliore salvaguardia della salute come interesse anche collettivo”. Inoltre, rileva il Supremo Collegio, la protezione individuale derivante dall’indennizzo, “completa il patto di solidarietà … tra individuo e collettività in tema di tutela della salute e, come già detto, rende più serio e affidabile ogni programma sanitario volto alla diffusione dei trattamenti vaccinali, al fine della più ampia copertura della popolazione”.
Sulla base di tali considerazioni, dunque, la sentenza in commento rimette alla Corte Costituzionale la questione di legittimità dell’art. 1, co. 1, L. 210/92 “nella parte in cui non prevede che il diritto all'indennizzo, istituito e regolato dalla stessa legge e alle condizioni ivi previste, spetti anche ai soggetti che abbiano subito lesioni e/o infermità, da cui siano derivali danni irreversibili all'integrità psico-fisica, per essere stati sottoposti a vaccinazione non obbligatoria, ma raccomandata, antimeningococcica”.
Il Tribunale di Busto Arsizio, con ordinanza del 21 marzo 2022, ha ritenuto discriminatoria la condotta del datore di lavoro che aveva adottato, nei confronti di due lavoratori non vaccinati, misure finalizzate al contenimento della Covid 19, di maggiore cautela rispetto a quelle vigenti all’epoca dei fatti.
L’antefatto processuale
La vicenda processuale trae origine dal ricorso proposto da due lavoratori i quali, dopo aver dato atto di non essersi sottoposti a vaccinazione anti Covid, hanno chiesto al Giudice del Lavoro di ordinare al datore la cessazione di condotte discriminatorie tenute nei loro confronti e consistenti nella richiesta di green pass (rafforzato) per l’accesso in azienda (nonostante la presentazione di un tampone rapido negativo nelle 48 ore precedenti), nello spostamento in sede distaccata “non riscaldata ed inidonea allo svolgimento dell’attività lavorativa” e nell’esercizio di pressioni affinchè si sottoponessero alla vaccinazione.
Il Tribunale, in composizione collegiale, all’esito del giudizio di reclamo, ha confermato l’ordinanza cautelare monocratica, ritenendo che le misure adottate dalla Società convenuta “all’interno dei luoghi di lavoro siano eccessive e lesive della libertà di autodeterminazione dei dipendenti”.
Il quadro normativo di riferimento
La vicenda decisa dall’ordinanza in commento risale al periodo settembre – ottobre 2021, quando ancora non era vigente l’obbligo di esibire il green pass (né base, né rafforzato) per accedere ai luoghi di lavoro.
Si rammenta che il D.L. n. 221 del 24 dicembre 2021, convertito con L. 18 febbraio 2022 n. 11 (per un primo commento del quale si rimanda all'articolo di Santina Panarella nel contributo “Obbligo vaccinale covid per operatori sanitari ed esercenti professioni sanitarie: (per) ora la sospensione e il demansionamento dei no vax sono legge") ha esteso la platea dei lavoratori interessati dall’obbligo di green Pass rinforzato mentre il D.L. n. 1 del 7 gennaio 2022 ha introdotto l’obbligo vaccinale per tutti coloro che hanno compiuto i 50 anni. Solo a partire dal 15 febbraio 2022, dunque, per i lavoratori pubblici e privati con 50 anni di età è stata prevista la necessità di Green Pass c.d. rafforzato per l’accesso ai luoghi di lavoro.
Pertanto, all’epoca dei fatti di causa, sussisteva esclusivamente l’obbligo di green pass c.d. base, essendo consentito l’accesso al luogo di lavoro a fronte della presentazione (in alternativa all’attestato vaccinale) di un tampone negativo.
Il vaccino anti Covid 19 e la tutela dei lavoratori
Il Tribunale di Busto Arsizio individua la questione oggetto di giudizio nella verifica della compatibilità della scelta datoriale di isolare i dipendenti con l’obbligo di cui all’art. 2087 c.c. a carico del datore di lavoro di adottare “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Il problema era già stato affrontato da diversi precedenti, con riguardo a particolari categorie di lavoraori (e soprattutto agli operatori sanitari), prima dell’introduzione dell’obbligo vaccinale (previsto per gli operatori sanitari dall’art. 4, D.L. n. 44/2021) e dell’obbligo di presentazione del green pass per l’accesso ai luoghi di lavoro.
Il primo provvedimento risale all’ordinanza del Tribunale di Belluno del 19 marzo 2021, commentata sul nostro sito da Santina Panarella nel contributo “Se l’operatore socio-sanitario si rifiuta di vaccinarsi contro il Covid – 19, la sua collocazione in ferie forzate è legittima”. In quel caso, era stata reputata legittima la decisione di una struttura sanitaria che aveva posto in ferie forzate alcuni operatori no vax.
Nello stesso senso si sono espressi, in epoca successiva, il Tribunale di Verona, ord. 24 maggio 2021 e il Tribunale di Modena, ord. 19 maggio 2021, che hanno rigettato le domande, proposte in via d'urgenza, da operatori sociosanitari addetti aRSA, collocati in aspettativa non retribuita in ragione del rifiuto di sottoporsi al vaccino anti Covid 19.
In epoca più recente, il Tribunale di Roma, con ordinanza del 28 luglio 2021 (oggetto di un nostro commento dal titolo “Legittima la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione del lavoratore che non si è sottoposto a vaccino anti Covid 19”) ha ritenuto legittima la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione del dipendente che non si era sottoposto al vaccino anti Covid 19, a seguito del giudizio di idoneità con limitazioni (consistenti nel non poter entrare “in contatto con i residenti del villaggio”), espresso dal medico competente, a tutela della salute del lavoratore e del pubblico potenzialmente a contatto con il medesimo.
La soluzione adottata dal Tribunale di Busto Arsizio
Il Collegio, nell’ordinanza in esame, ha censurato la pretesa del datore di lavoro convenuo di “non ammettere il lavoratore munito di Green pass base ad operare nella propria postazione, all’interno del consueto ambiente lavorativo“ in quanto “misura che non tiene conto della particolarità della lavorazione (diverso discorso, come già detto, si può fare per il personale sanitario) e dell’esperienza e tecnica alla base dei protocolli anti Covid adottati nel nostro Stato tenuto conto delle conoscenze scientifiche in materia”.
Occorre evidenziare come il provvedimento in esame – ad onta di quanto si legge in qualche articolo di stampa, sulla base di una lettura superficiale delle motivazioni adottate dal Tribunale – non riguardi la previsione dell’obbligo vaccinale (peraltro nemmeno introdotto all’epoca dei fatti). La legittimità delle disposizioni che hanno previsto l’obbligo vaccinale per determinate categorie di cittadini è ormai affermata dalla costante giurisprudenza intervenuta in materia (v. tra le tante, Consiglio di Stato sentenza 20 ottobre 2021, n. 7045, commentata sul nostro sito: “Per il Consiglio di Stato è legittimo l’obbligo vaccinale per i sanitari”; ed ancora sentenza n. 6476 del 3 dicembre 2021, commentata sul nostro sito: “L’obbligo vaccinale per i sanitari è legittimo e ragionevole”).
Viene, invece, in rilievo nel caso di specie la diversa questione dei limiti delle misure che il datore può disporre nei confronti dei lavoratori non vaccinati ai fini del contenimento del contagio da Sars-Covid 2, in assenza di obbligo vaccinale. Il problema è qunque quello del contemperamento dell’obbligo di sicurezza dei luoghi di lavoro e del diritto all’autodeterimazione dei lavoratori.
Occorre muovere dal referente normativo, e dunque dal D.Lgs. 81/08.
In particolare, ai sensi dell’art. 15, lett. m), rientra nelle misure generali di tutela della salute sui luoghi di lavoro, a carico del datore, “l'allontanamento del lavoratore dall'esposizione al rischio per motivi sanitari inerenti la sua persona e l'adibizione, ove possibile, ad altra mansione”. L’art. 20, poi, impone ad ogni lavoratore di“prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni”.
Sembrerebbe dunque potersi trarre il corollario, colto dal Tribunale di Modena, nella citata ord. 19 maggio 2021, che “la protezione e salvaguardia della salute dell’utenza rientra nell’oggetto della prestazione esigibile” in quanto la “tutela della salute dell’utenza penetra nella struttura del contratto tanto da qualificare la prestazione lavorativa”.
In quest’ottica ci si può porre in una diversa prospettiva, che guarda all’incidenza della mancata copertura vaccinale sulla causa del contratto.
In assenza di un obbligo vaccinale si può ritenere che la scelta del dipendente di non sottoporsi al vaccino, non può legittimare l’adozione di provvedimenti limitativi della esplicazione della sua professionalità (quale l’assegnazione a mansioni diverse da quelle esplicate in epoca antecedente all’avvento della pandemia), se non nella misura in cui il contegno del lavoratore che decida di non vaccinarsi incida sulla oggettiva idoneità a svolgere determinate mansioni ovvero ponga in pericolo la salute di coloro che frequentano i luoghi di lavoro. Se dunque può ritenersi illegittima l’adozione di misure preventive ad hoc nei confronti del lavoratore non vaccinato in assenza di condizioni che possano porre in pericolo la salute del lavoratore stesso e dei terzi (si pensi a quello che era il caso di chi lavorava a contatto col pubblico prima dell’entrata in vigore dell’obbligo vaccinale), appare invece ragionevole prevedere da parte del datore di lavoro, per il tramite delle prescrizioni del medico competente, l’assegnazione a mansioni compatibili con la tutela della salute del lavoratore stesso e di tutti i soggetti con cui può venire potenzialmente in contatto, come visto oggetto di uno specifico dovere di sicurezza in capo allo stesso prestatore di lavoro.
La Corte di Cassazione, Terza Sezione Civile, con sentenza del 7 marzo 2022, n. 7352 è tornata sul tema delle componenti del costo del credito, concludendo che la commissione di estinzione anticipata non è computabile ai fini della verifica dell’usurarietà degli interessi.
La Corte rammenta in premessa «l'importanza della tutela del debitore quale espressa dalla disciplina antiusura».
Muovendo da tale principio, la Cassazione, nella sua composizione più autorevole, con sentenza 18 settembre 2020 n. 19597, aveva già chiarito che «La disciplina antiusura trova applicazione anche agli interessi moratori intendendo essa sanzionare la pattuizione di interessi eccessivi convenuti al momento della stipula del contratto quale corrispettivo per la concessione del denaro, ma anche la promessa di qualsiasi somma usuraria sia dovuta in relazione al contratto concluso».
D’altra parte, pur assumendo, all’indomani di questo arresto, che gli interessi moratori siano assoggettati al divieto di superamento della soglia usuraria al momento della loro pattuizione o stipulazione, non si può trarre il corollario della indistinta assimilazione degli stessi agli interessi corrispettivi, essendo entrambi assoggettabili alle medesime soglie di cui alla tabella allegata ai periodici decreti ministeriali di rilevazione dei tassi medi praticati per ciascuna tipologia di operazioni.
Come precisato anche in epoca successiva all’intervento delle Sezioni Unite, la somma del tasso d’interesse corrispettivo e di quello moratorio risulta logicamente scorretta: il primo tasso, quello corrispettivo, è riferito all’intero capitale di credito e copre il periodo contrattualmente previsto per il finanziamento, il secondo, quello di mora, è riferito alla rata scaduta e/o al capitale scaduto ed è dovuto per il periodo successivo alla scadenza degli stessi. Ne discende il corollario che l’applicazione del tasso di mora non si cumula con il tasso corrispettivo, risultando il primo ‘sostitutivo’ del secondo, dal momento della scadenza della rata o del capitale rimasti impagati
In questi termini si è espressa Cass., 4 novembre 2021, n. 31615, secondo cui «ai fini della determinazione del tasso soglia, non è possibile procedere al cumulo materiale delle somme dovute alla banca a titolo di interessi corrispettivi e di interessi moratori, stante la diversa funzione che gli stessi perseguono in relazione alla natura corrispettiva dei primi e di penale per l'inadempimento dei secondi, sicché è necessario procedere al calcolo separato della loro relativa incidenza, per i primi ricorrendo alle previsioni dell'art. 2, comma 4, della legge n. 108 del 1996 e per i secondi, ove non citati nella rilevazione dei decreti ministeriali attuativi della citata previsione legislativa, comparando il tasso effettivo globale, aumentato della percentuale di mora, con il tasso effettivo globale medio del periodo di riferimento» (v. anche Cass., 20 maggio 2020, n. 9237).
Facendo applicazione di tali principi, la sentenza in commento afferma l’impossibilità di cumulare, ai fini della verifica della usurarietà, la commissione di estinzione anticipata con gli interessi moratori.
Infatti, gli interessi moratori «costituiscono una clausola penale risarcitoria volta a compensare il ritardo nella restituzione del denaro, così da sostituire, incrementati, gli interessi corrispettivi», come tali computabli ai fini della valutazione dell’usura.
Viceversa, la commissione di estinzione anticipata costituisce configura una multa penitenziale, la cui funzione «non è collegata se non indirettamente all'erogazione del credito, non rientrando tra i flussi di rimborso, maggiorato del correlativo corrispettivo o del costo di mora per il ritardo nella corresponsione di quello», bensì quella di compensare la banca mutuante delle conseguenze economiche per sé negative derivanti dall’estinzione anticipata del debito da restituzione, nell’ipotesi in cui il mutuatario intenda esercitare la facoltà di recesso prima della scadenza naturale del contratto.
In altre parole, «non si è di fronte (…) a "una remunerazione, a favore della banca, dipendente dall'effettiva durata dell'utilizzazione dei fondi da parte del cliente" (arg. D.L. n. 185 del 2008, ex art. 2-bis, quale convertito), posto che, al contrario, si tratta del corrispettivo previsto per sciogliere gli impegni connessi a quella”.
Su queste premesse, la Corte conclude che «la natura di penale per recesso, propria della commissione di estinzione anticipata, comporta che si tratta di voce non computabile ai fini della verifica di non usurarietà».
Secondo questa ricostruzione, dunque, costituendo la commissione di estinzione anticipata un costo connesso alla facoltà attribuita al mutuatario di rimborsare anticipatamente il debito, non è collegata alla erogazione del credito e, dunque, non è computabile ai fini della valutazione della usurarietà dei tassi pattuiti, come richiesto dalla legge n. 108 del 1996.