Il licenziamento per giusta causa intimato a seguito di condanna penale, pur se risalente nel tempo, è legittimo se il fatto contestato è connotato da particolare gravità e disvalore sociale. Questo il principio affermato dalla ordinanza della Corte di Cassazione del 23 maggio 2023, n. 14114.

La vicenda processuale trae origine dal licenziamento intimato al lavoratore condannato diversi anni prima, con sentenza passata in giudicato, per violenza sessuale nei confronti di una minorenne commessa al di fuori dell’attività lavorativa.

I giudici di merito hanno ritenuto non integrata una giusta causa di licenziamento, sul presupposto che la condotta contestata non era di particolare gravità, tenuto conto del tempo trascorso dal fatto e della mancanza di altre valutazioni di legge.

Occorre rammentare, per quanto noto, che la giusta causa di licenziamento è una «nozione di legge che si viene ad inscrivere in un ambito di disposizioni caratterizzate dalla presenza di elementi "normativi" e di clausole generali il cui contenuto, elastico ed indeterminato, abbisogna di essere colmato attraverso il contributo dell'interprete, mediante valutazioni e giudizi di valore desumibili dalla coscienza sociale o dal costume o dall'ordinamento giuridico o da regole proprie di determinate cerchie sociali o di particolari discipline o arti o professioni» (Cass, 31 marzo 2021, n.8957).

La Corte di cassazione può sindacare l'attività di integrazione del precetto normativo compiuta dal giudice di merito ove si denunci l’incoerenza del predetto giudizio «rispetto agli standards, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale» (Cass., 10 febbraio 2022, n. 4409).

Sotto il profilo della proporzionalità il giudice del merito è chiamato a verificare la condotta del lavoratore con riguardo agli obblighi di diligenza e fedeltà, alla luce del "disvalore ambientale" che la stessa poteva assumere, verificandone in concreto il rilievo con riguardo alla posizione professionale rivestita (cfr. Cass., 17 aprile 2023, n. 10124).

L’ordinanza in commento, facendo applicazione di tali principi, ha ritenuto che la corte di merito, nel valutare la sussistenza di una giusta causa di recesso – ai sensi dell’art. 2119 c.c. e del C.C.N.L. applicabile – abbia «irragionevolmente ritenuto di non poter sussumere il fatto pacificamente accertato nella sua materialità nella norma generale con una valutazione non coerente rispetto a quelli che sono gli standard, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale».

In particolare, rileva il Supremo Collegio come «una violenza sessuale ai danni di una minore di età, in qualsiasi contesto sia commessa, è secondo uno standard socialmente condiviso una condotta che per quanto di per sé estranea al rapporto di lavoro è idonea a ledere il vincolo fiduciario a prescindere dal contesto in cui la stessa è stata commessa e dal tempo trascorso dal fatto, a maggior ragione ove l'attività lavorativa svolta ponga il lavoratore a diretto contatto col pubblico».

Tale argomento si pone nel solco della giurisprudenza di legittimità che esclude un automatismo tra condanna penale e licenziamento. È infatti vero che, anche in caso di condanna da reato, il giudicante è chiamato a verificare l'idoneità del fatto costituenti reato, per come accertato in sede penale, a ledere il rapporto fiduciario, valutando la gravità dei fatti in relazione alla natura del rapporto, alle mansioni affidate ed al grado di affidamento connesso all'esercizio di tali mansioni (v. Cass., 30 settembre 2014, n. 20602; in materia di licenziamento disciplinare intimato per fatti che, al contempo, sono oggetto di accertamento da parte dell’Autorità giudiziaria penale, v. sul nostro sito, Roberto Lama, Il licenziamento disciplinare intimato per fatti aventi rilevanza penale).

In questa prospettiva, come conclude l’ordinanza in commento, non rilevano «altri elementi di contorno esterni (quale ad esempio il tempo trascorso e l'unicità del fatto)»

In altre parole, il trascorrere del tempo non incide sulla gravità della condotta, e dunque sul giudizio di proporzionalità, in presenza di un fatto, costituente reato, di particolare disvalore sociale, alla professionalità del lavoratore. E ciò perché persiste la lesione del vincolo fiduciario, tanto più in un caso in cui il datore di lavoro aveva appreso della condanna solo poco prima dell’irrogazione della sanzione disciplinare e non è dunque dato discorrere nemmeno di intempestività della contestazione disciplinare.

Il post su Twitter non esime l'autore dal necessario rispetto della continenza espressiva in quanto non può concretizzare una manifestazione del pensiero irresponsabile sol perché veicolata tramite il mezzo prescelto. Questo il principio affermato dalla ordinanza della Corte di Cassazione del 16 maggio 2023, n. 13411.

La vicenda trae origine dalla domanda proposta dalla Consob contro un ex Senatore della Repubblica per ottenere il risarcimento dei danni derivanti un post su Twitter gravemente lesivo dell’onorabilità dell’Ente.

La Cassazione individua, innanzi tutto, i limiti del controllo di legittimità in tema di danni da diffamazione, ribadendo che «la valutazione del contenuto degli scritti, l'apprezzamento in concreto delle espressioni usate come lesive dell'altrui reputazione e la valutazione dell'esistenza o meno dell'esimente dell'esercizio dei diritti (di cronaca e) di critica costituiscono oggetto di accertamenti in fatto, riservati al giudice di merito e insindacabili in sede di legittimità se sorretti da argomentata motivazione» (su tutte, Cassazione civile sez. III, 27/01/2015, n.1435).

Fatte queste premesse, l’ordinanza in commento disattende la censura, proposta dal ricorrente, attinente alla mancata considerazione del contesto di critica politica entro cui erano state rese le dichiarazioni affidate a un post su Twitter.

La Cassazione rileva che «il legittimo esercizio del diritto di critica - anche in ambito latamente politico - sebbene consenta il ricorso a toni aspri e di disapprovazione più pungenti e incisivi rispetto a quelli comunemente adoperati nei rapporti tra privati, è pur sempre condizionato dal limite della continenza intesa come correttezza formale dell'esposizione e non eccedenza dai limiti di quanto strettamente necessario per il pubblico interesse».

Nel senso del necessario rispetto del limite della contenenza anche nel caso di critica politica si è costantemente espressa la Corte di Cassazione. In particolare, è stato rilevato che «il legittimo esercizio del diritto di critica - anche in ambito politico, ove è consentito il ricorso a toni aspri e di disapprovazione più pungenti e incisivi rispetto a quelli comunemente adoperati nei rapporti tra privati - è pur sempre condizionato, come quello di cronaca, dal limite della continenza, intesa come correttezza formale dell'esposizione e non eccedenza dai limiti di quanto strettamente necessario per il pubblico interesse» (tra le più recenti, Cass. civ., 12 aprile 2022, n.11767).

Sotto altro profilo, deve evidenziarsi che la Corte Costituzionale, con sentenza del 1 dicembre 2022, n.241, ha chiarito che non rientra nell’ambito di applicazione dell’art, 68 Cost. la condotta del deputato che pubblica su Facebook affermazioni offensive della reputazione altrui in assenza di un “nesso funzionale” con l'attività parlamentare posta in essere.

Né rileverebbe, ai fini di una diversa considerazione del contenuto lesivo delle affermazioni, la circostanza che le stesse siano affidate ad un post su un social network, quale Twitter. Infatti – osserva il Supremo Collegio - «nella formulazione di qualunque giudizio critico si possono utilizzare espressioni anche lesive della reputazione altrui, ma purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall'opinione o comportamento preso di mira, e non si risolvano, invece, in un'aggressione gratuita e distruttiva dell'onore e della reputazione del soggetto interessato».

Tale considerazione si pone nel solco del costante insegnamento del Supremo Collegio, secondo cui l'esimente del diritto di critica postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione; l’operare della predetta esimente non è tuttavia escluso dall'utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico in quanto non hanno adeguati equivalenti. In questi termini si è espressa Cass. pen., 29 novembre 2019, n. 15089, secondo cui «l'esimente del diritto di critica postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione, ma non vieta l'utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico in quanto non hanno adeguati equivalenti»). Nello stesso senso, ancora di recente, la Cassazione ha ribadito che «in tema di diffamazione, nel caso di condotta realizzata attraverso social network, nella valutazione del requisito della continenza, ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, si deve tener conto non solo del tenore del linguaggio utilizzato, ma anche dell'eccentricità delle modalità di esercizio della critica» (così, Cass. pen., 18 gennaio 2021, n. 8898).

In questa prospettiva, deve registrarsi il medesimo orientamento persino in materia di satira, con riguardo alla quale è stato, ancora di recente, ribadito che, costituendo la stessa «una modalità corrosiva e spesso impietosa del diritto di critica»,  diversamente da quest'ultimo è «sottratta al parametro della verità, in quanto esprime mediante il paradosso e la metafora surreale un giudizio ironico su un fatto», ma rimane assoggettata «al limite della continenza e della funzionalità delle espressioni o delle immagini rispetto allo scopo di denuncia sociale o politica perseguito». Di conseguenza, «nella formulazione del giudizio critico, possono essere utilizzate espressioni di qualsiasi tipo, anche lesive della reputazione altrui, purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall'opinione o comportamento preso di mira e non si risolvano in un'aggressione gratuita e distruttiva dell'onore e della reputazione del soggetto interessato, e a patto che la presentazione in veste ironica e scherzosa non divenga lo strumento per diffondere informazioni false, oltre che offensive, quantomeno nel loro nucleo essenziale» (Cass. pen., 2 febbraio 2023, n.12101).

Pertanto, si legge nell’ordinanza in commento, anche l’uso di una piattaforma quale Twitter «implica l'osservanza del limite intrinseco del giudizio che si posta in condivisione, il quale, come ogni giudizio, non può andar disgiunto dal contenuto che lo contraddistingue e dalla forma espressiva, soprattutto perché tradotto in breve messaggio di testo per sua natura assertivo o scarsamente motivato».

Su queste premesse la Corte di Cassazione conferma la condanna dell’ex Senatore al risarcimento dei danni subiti dall’ente regolatore.  

La prescrizione del diritto al risarcimento del danno da illecito endofamiliare decorre solo dal momento dell’effettiva cessazione della condotta contraria ai doveri di genitore e comunque dal momento della concreta percepibilità del danno da parte della vittima.

Inoltre, la cessazione dell'obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti, ai fini del decorso della prescrizione, non può prescindere dall’accertamento dell'assolvimento da parte del genitore dell'obbligo di mantenimento, dato che l'adempimento di tale dovere costituisce la condizione imprescindibile per lo sviluppo personale e professionale del figlio maggiorenne.

Questi i principi affermati dalla Cassazione, con la sentenza n. 9930 del 13 aprile 2023.

La vicenda decisa dal Supremo Collegio trae origine dalla domanda risarcitoria proposta dal figlio nei confronti del padre adottivo per avere questi tenuto nei suoi confronti comportamenti contrari agli obblighi genitoriali, di mantenimento, istruzione ed educazione, così provocandogli un forte disagio personale e sociale, di cui ha chiesto il ristoro.

Come rilevato dalla sentenza in esame “totale disinteresse dimostrato da un genitore nei confronti del figlio integra, da un lato, la violazione degli obblighi di mantenimento, di istruzione e di educazione, e determina, dall'altro, un'inevitabile e insanabile ferita di quei fondamentali diritti nascenti dal rapporto di filiazione, che trovano nella Carta costituzionale (in particolare, negli artt. 2 e 30) e nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento un livello assoluto di riconoscimento”. In particolare, l’abbandono parentale consiste “nel mancato adempimento di tutti gli obblighi che il genitore assume nei confronti della prole: una completa e costante assenza di un genitore nella vita filiale, dunque, è ritenuto un indiscutibile esempio di illecito omissivo di carattere permanente”.

La Corte territoriale aveva ritenuto estinto per prescrizione sia il diritto al risarcimento del danno da illecito endofamiliare che il diritto al mantenimento.

In particolare, i giudici del merito avevano preso le mosse dalla qualificazione dell’illecito endofamiliare in termini di illecito permanente, con riguardo al quale – secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite (Cass. SS.UU., 14 novembre 2011, n. 23763) – “protraendosi la verificazione dell'evento in ogni momento della durata del danno e della condotta che lo produce, la prescrizione ricomincia a decorrere ogni giorno successivo a quello in cui il danno si è manifestato per la prima volta, fino alla cessazione della predetta condotta dannosa, sicché il diritto al risarcimento sorge in modo continuo via via che il danno si produce, ed in modo continuo si prescrive se non esercitato entro cinque anni dal momento in cui si verifica”.

Pertanto, a giudizio della Corte territoriale, il dies a quo del termine di prescrizione dell’azione andava individuato nel momento della cessazione del rapporto tra padre e figlio ovvero del raggiungimento da parte di quest’ultimo dell’autosufficienza economica ovvero del mancato svolgimento di attività economica per negligenza imputabile allo stesso figlio (in questi termini, Cass. 24 gennaio 2018, n. 1744).

La sentenza in commento muove, invece, dall’assunto che “l’illecito endofamiliare si caratterizza per una serie di omissioni protrattesi per un apprezzabile lasso di tempo, suscettibile di essere interrotta in ogni momento soltanto per effetto di una radicale modificazione del proprio atteggiamento genitoriale, e cioè solo con l'adempimento degli obblighi dovuti alla prole”. Di conseguenza, “finché la situazione di assenza, disinteresse, abbandono - integrata, come nella specie, dal consapevole e costante rifiuto di adempiere ai propri doveri di padre – non viene rimossa, l'illecito si perpetua nel tempo, restando attuale ed eguale a sé stesso, in ragione del fatto che il comportamento produttivo di danno non può ritenersi commesso unico actu”.

Tale ricostruzione discenderebbe, secondo quanto precisato dalla Corte, dalla configurazione dell’illecito permanente quale “fattispecie complessa ed a formazione progressiva, nel senso che il protrarsi dell'offesa proviene da un comportamento volontario dell'autore che prosegue senza interruzione, per cui egli è in grado in qualsiasi momento di porre fine a tale situazione dannosa” (cfr., di recente, Cass. 01/03/2023, n. 6177).

Su queste premesse, la Cassazione ribalta la conclusione della sentenza di merito nella parte in cui ha fatto coincidere la cessazione del comportamento illecito non con il venir meno dell’abbandono per effetto del recupero del rapporto parentale (o perché il genitore non fosse in grado di provvedere all’assistenza del figlio per causa a lui non imputabile) ma con la materiale cessazione del rapporto ovvero con il raggiungimento dell’autosufficienza del figlio. Sennonché, sarebbe contraddittorio con i caratteri dell’illecito permanente, attribuire alla persistenza della condotta omissiva del padre (che ha continuato a non accogliere il figlio e non lo ha nemmeno informato della morte della madre) il valore di atto di cessazione della condotta illecita, e dunque di dies a quo del termine prescrizionale.

Sotto altro profilo, a giudizio della sentenza in commento, il giudice del merito, ai fini della determinazione dies a quo dell’azione risarcitoria, non deve limitarsi a individuare il momento di cessazione dell’illecito endofamiliare (comunque, erroneamente, fatto coincidere dalla Corte territoriale con l’interruzione dei rapporti fra le parti), ma è chiamato ad indagare se la vittima dell’abbandono “fosse pervenuta ad una reale condizione emotiva di consapevole esercitabilità del diritto risarcitorio come sopra illustrato”.

Così opinando la sentenza in esame ha ritenuto di dare piena applicazione al più recente insegnamento del Supremo Collegio (ordinanza Cass., 10 giugno 2020, n. 11097, ed ancora, negli stessi termini, Cass., 6 ottobre 2021, n. 27139 e Cass., 28 novembre 2022, n. 34950), secondo cui “L'abbandono genitoriale, quale costante omissione di tutti gli obblighi che il genitore ha nei confronti della prole, integra un illecito endofamiliare permanente, cosicché la peculiare natura di tale danno, che investe la progressiva formazione della personalità del danneggiato condizionando le sue capacità di comprensione e autodifesa, incide sul 'dies a quo' della prescrizione, da individuarsi nel momento in cui la vittima è pervenuta alla concreta possibilità di esercitare la pretesa risarcitoria”. Tale illecito, infatti, “produce anche un danno non patrimoniale lato sensu psicologico-esistenziale, ovvero che investe direttamente la progressiva formazione della personalità del danneggiato, condizionando così pure lo sviluppo delle sue capacità di comprensione e di autodifesa”.

Con riguardo, invece, alla diversa questione della prescrizione al diritto al mantenimento e alla educazione del figlio, benché maggiorenne, la sentenza in commento richiama l’orientamento del Supremo Collegio, secondo cui “ai fini del riconoscimento dell'obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente, ovvero del diritto all'assegnazione della casa coniugale, il giudice di merito è tenuto a valutare, con prudente apprezzamento, caso per caso e con criteri di rigore proporzionalmente crescenti in rapporto all'età dei beneficiari, le circostanze che giustificano il permanere del suddetto obbligo o l'assegnazione dell'immobile, fermo restando che tale obbligo non può essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, poiché il diritto del figlio si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione, nel rispetto delle sue capacità, inclinazioni e (purché compatibili con le condizioni economiche dei genitori) aspirazioni” (Cass., 14/08/2020, n. 17183).

Facendo applicazione di tali principi, la sentenza in commento conclude che la valutazione della persistenza dell’obbligo di mantenimento “pur dovendo riguardare senz'altro la complessiva condotta tenuta da parte dell'avente diritto dal momento del raggiungimento della maggiore età in poi, non può prescindere dal pregiudiziale accertamento circa l'assolvimento, da parte del genitore gravato, dell'obbligo di mantenimento. Ciò in quando l'adempimento di tale dovere costituisce la condizione imprescindibile per lo sviluppo personale e professionale del figlio maggiorenne”.

Nel caso di specie, il Supremo Collegio ha ritenuto completamente omesso tale accertamento da parte dei giudici di merito che hanno invece ritenuto sufficiente il dato materiale del trasferimento della residenza del figlio, senza considerare se quest’ultimo fosse stato posto nelle concrete condizioni per poter essere economicamente autosufficiente.

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