Espressioni omofobe utilizzate nei confronti di una collega lesbica legittimano il licenziamento, in quanto integranti una condotta discriminatoria, contraria ai principi generali dell’ordinamento e ai valori radicati nella realtà sociale. Così ha concluso la Cassazione, con ordinanza del 9 marzo 2023, n. 7029.

Il procedimento disciplinare, culminato nel provvedimento in esame, era stato avviato a seguito dell’esposto presentato da una impiegata di azienda tranviaria che aveva riferito di essere stata destinataria di espressioni omofobe, rivoltele da un collega, che la aveva derisa per la sua asserita omosessualità e la recente maternità. In particolare, l’episodio era avvenuto alla fermata di un autobus, in presenza di altri utenti, allorché entrambi indossavano la divisa aziendale.

Il datore di lavoro ha proceduto al licenziamento per giusta causa ritenendo il comportamento contestato al lavoratore gravemente lesivo dei principi del Codice Etico aziendale e delle regole della civile convivenza, anche in relazione all’art. 45, n. 6, Regio Decreto n. 148 del 1931, il quale prevede la destituzione del dipendente “per azioni disonorevoli od immorali, ancorché non costituiscano reato o trattisi di cosa estranea al servizio, si renda indegno della pubblica stima”.

La Corte di merito ha ritenuto sproporzionata la sanzione espulsiva relegando il fatto contestato a “condotta inurbana”, di minore gravita rispetto al “contegno inurbano o scorretto verso il pubblico”, punita con sanzione conservativa dall’art 42, n. 2, R.D. 148/31.

La Corte di Cassazione muove dal richiamo alla consolidata giurisprudenza che riconduce la giusta causa di licenziamento a “una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici; la sussunzione della fattispecie concreta nella clausola elastica della giusta causa secondo "standards" conformi ai valori dell'ordinamento, che trovino conferma nella realtà sociale, è dunque sindacabile in sede di legittimità con riguardo alla pertinenza e non coerenza del giudizio operato, quali specificazioni del parametro normativo avente natura giuridica e del conseguente controllo nomofilattico affidato alla Corte di cassazione”.

In questi termini, Cass., 21 aprile 2022, n.12789, secondo cui “l'art. 2119 c.c., configura una norma elastica, in quanto costituisce una disposizione di contenuto precettivo ampio e polivalente destinato ad essere progressivamente precisato, nell'estrinsecarsi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, fino alla formazione del diritto vivente mediante puntualizzazioni, di carattere generale ed astratto, precisando che l'operazione valutativa, compiuta dal giudice di merito nell'applicare clausole generali come quella dell'art. 2119 c.c., non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità (Cass. nn. 1351 del 2016, 12069 del 2015, 6501 del 2013), poiché l'operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall'ordinamento”. Ancora di recente, è stato ribadito che l’art. 2119 c.c. “In quanto norma elastica, che cioè indica solo parametri generali e pertanto presupponga da parte del giudice un'attività di integrazione giuridica della norma, a cui sia data concretezza ai fini del suo adeguamento ad un determinato contesto storico-sociale, la valutazione della Cassazione sulla giusta causa di licenziamento è limitata alla specifica denuncia di incoerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale” (Cass., 10 febbraio 2022, n. 4409).

L’ordinanza in esame, applicando questi principi, ha rilevato che la valutazione del comportamento imputato al lavoratore come “inurbano” non è conforme “ai valori presenti nella realtà sociale ed ai principi dell'ordinamento”.

In questo senso, assume rilievo, a giudizio del Supremo Collegio, la acquisizione, negli ultimi decenni, “della consapevolezza del rispetto che merita qualunque scelta di orientamento sessuale e del fatto che essa attiene ad una sfera intima e assolutamente riservata della persona”. Conseguentemente, le espressioni omofobe, utilizzate in presenza di terze persone, in quanto lesiva di tale sfera di riservatezza, non violano solo le regole di buona educazione, ma “si pongono in contrasto con valori ben più pregnanti, ormai radicati nella coscienza generale ed espressione di principi generali dell'ordinamento”

In particolare, vengono in rilievo gli artt. 2, 3, 4 e 35 della Costituzione e, ancor più di recente, i diversi interventi legislativi tesi a prevenire e sanzionare la discriminazione sui luoghi di lavoro. Inevitabile il richiamo all’art. 26 D.Lgs. n. 198 del 2006 il quale - considerando come “discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo” – tutela “chi si trovi a subire nell'ambito del rapporto di lavoro comportamenti indesiderati per ragioni connesse al sesso”. E senz’altro la fattispecie sottoposta al vaglio del Supremo Collegio è riconducibile a tale ambito di tutela.

Da ultimo, la Corte individua un ulteriore profilo di rilievo dell’utilizzo di espressioni omofobe nella lesione della riservatezza relativa all’orientamento sessuale, quale dato sensibile ai sensi della normativa a tutela della privacy, di cui al D.Lgs. 196/2003, come modificato dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101.

La concretizzazione della clausola generale alla luce della coscienza generale del tempo deve poi tener conto del rilievo, sempre maggiore, che è andato assumendo il concetto di identità di genere, comparso, per la prima volta, nella Direttiva 2011/95 UE, sull'attribuzione della qualifica di rifugiato, recepita nel D.Lgs. 21 febbraio 2014, n. 18, che fa espressamente riferimento al concetto di identità di genere, ai fini della determinazione di pratiche persecutorie. La stessa espressione è, inoltre, contenuta anche nella Direttiva 2012/29 UE, recepita dall'Italia con D.Lgs. 15 dicembre 2015, n. 212, che prevede l'obbligo per gli Stati di proteggere le persone che subiscono violenza in quanto appartenenti ad un genere, oppure a causa della propria identità di genere.

In questo contesto, Cass. penale, 25 maggio 2021, n. 30545 ha negato le circostanze attenuanti generiche in relazione a gravi offese discriminatorie o denigratorie dell’identità di genere della vittima, “qualificata in modo volutamente sprezzante come "lesbica" … in numerosi messaggi e persino nel nome dato al gruppo whatsapp creato per denigrare la vittima in ambiente di lavoro, con conseguente violazione anche della privacy”.

Il termine di decadenza di tre anni per la proposizione di domanda di indennizzo del danno da vaccino decorre dal momento della conoscenza, in capo al danneggiato, della indennizzabilità del danno. Su queste premesse la Corte Costituzionale, con la sentenza 6 marzo 2023, n. 35, in riferimento agli artt. 2 e 32 Cost., ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, co. 1, Legge 25 febbraio 1992, n. 210, nella parte in cui fa decorrere il termine triennale dalla sola conoscenza del danno e non anche della sua indennizzabilità.

La vicenda processuale e l’ordinanza di remissione   

I Giudici del merito avevano ritenuto corretto applicarsi all’indennizzo per danno vaccinale, richiesto oltre il termine triennale di legge, il criterio della decadenza c.d. mobile, in base al quale la causa estintiva del diritto indennitario opera limitatamente ai ratei interni al triennio.

La Corte rimettente – considerato che il criterio della decadenza c.d. mobile, stabilito per i trattamenti pensionistici dall’art. 47, co. 6, D.P.R. 639/70, non possa essere esteso in via analogica all’indennizzo da vaccino – ha rilevato come, in forza di un’interpretazione letterale della norma, avrebbe dovuto ritenersi la parte istante decaduta dal diritto all’intero inennizzo. Osserva, altresì, la Corte di legittimità che, stante “l’analogo fondamento costituzionale” delle due erogazioni, sarebbe irragionevole la disparità di trattamento sul piano dell’effetto decadenziale della tutela indennitaria, frustrando la ratio della tutela medesima.

Pertanto, la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con ordinanza del 17 gennaio 2022, n. 33 ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale della L. 25 febbraio 1992, n. 210, art. 3, co. 1, in riferimento agli artt. 2, 3, 32 e 38 Cost., nella parte in cui non prevede che la decadenza triennale del diritto all'indennizzo per danni vaccinali abbia effetto limitato ai ratei interni al triennio.

L’equo indennizzo e il diritto alla salute

La sentenza in commento muove dal principio secondo cui “uno degli elementi essenziali affinché un trattamento sanitario obbligatorio di tipo vaccinale sia conforme all'art. 32 Cost. consiste nella previsione di un'equa indennità in favore del soggetto danneggiato” (così, da ultimo, Corte Cost., sent. n. 15 e n. 14 del 2023).

In questa prospettiva vanno letti i numerosi arresti della Corte Costituzionale sollecitata a pronunciarsi sull’estensibilità del diritto all’indennizzo in caso di lesioni conseguenti a vaccinazioni non ricomprese nella lista di quelle obbligatorie. 

In particolare, la Corte Costituzionale, nella sentenza 22 novembre 2017, n. 268 – che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 L. 210 del 1992 nella parte in cui non prevede il diritto di indennizzo in favore di coloro che abbiano subito un danno alla salute, essendosi sottoposti a vaccino antinfluenzale – ha osservato che “la ragione determinante del diritto all'indennizzo non deriva dall'essersi sottoposti a un trattamento obbligatorio, in quanto tale; essa risiede piuttosto nelle esigenze di solidarietà sociale che si impongono alla collettività, laddove il singolo subisca conseguenze negative per la propria integrità psico-fisica derivanti da un trattamento sanitario (obbligatorio o raccomandato) effettuato anche nell'interesse della collettività”.

Le sentenze n. 27 del  4 marzo 1998 e n. 423 del 18 ottobre 2000, già in precedenza, avevano dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 1 L. 210/92 nella parte in cui non prevede l’indennizzo in favore di soggetti che hanno subito lesioni in conseguenza, rispettivamente, delle vaccinazioni antipolio e antiepatite B prima che le stesse divenissero obbligatorie. Da ultimo, Corte cost., Sent. 23 giugno 2020, n. 118 ha esteso il diritto all’indennizzo a favore di chi abbia riportato lesioni a causa della vaccinazione contro il contagio dal virus dell’epatite A.

Di recente, poi, e sulla base delle considerazioni di cui sopra, la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con ordinanza del 30 maggio 2022, n. 17441 (commentata sul nostro sito: Indennizzo e vaccini non obbligatori: la parola alla Corte Costituzionale) ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione del diritto all'indennizzo anche ai soggetti che abbiano subito lesioni e/o infermità, da cui siano derivati danni irreversibili all'integrità psico-fisica, per essere stati sottoposti a vaccinazione non obbligatoria, ma raccomandata, antimeningococcica.

Il Supremo Collegio rileva che  la protezione individuale derivante dall’indennizzo, “completa il patto di solidarietà … tra individuo e collettività in tema di tutela della salute e, come già detto, rende più serio e affidabile ogni programma sanitario volto alla diffusione dei trattamenti vaccinali, al fine della più ampia copertura della popolazione”.

Le conclusioni della Consulta

La sentenza in commento osserva che “le esigenze di solidarietà sociale e di tutela della salute del singolo, poste a fondamento della disciplina introdotta dalla legge n. 210 del 1992, portano a ritenere che la conoscenza del danno, che segna il dies a quo del triennio per la presentazione della domanda amministrativa, suppone che il danneggiato abbia acquisito consapevolezza non soltanto dell'esteriorizzazione della menomazione permanente dell'integrità psico-fisica e della sua riferibilità causale alla vaccinazione, ma anche della sua rilevanza giuridica, e quindi dell'azionabilità del diritto all'indennizzo”.  

Dal momento in cui non è possibile richiedere l’indennizzo per i pregiudizi derivanti da vaccinazione non obbligatoria, sino alla introduzione di specifica disposizione legislativa ovvero sino alla declaratoria di illegittimità costituzionale con riguardo alla singola vaccinazione (non obbligatoria), colliderebbe con la garanzia costituzionale del diritto alla prestazione indennitaria, e conla ratio solidaristica alla stessa sottesa, far decorrere il relativo termine decadenziale prima del verificarsi di quei presupposti.  

Sulla base di questi rilievi, d’altronde, l’art. 3, co. 3, L. 362 del 1999 ha fissato il dies a quo del termine di decadenza dalla domanda di indennizzo per i danni da vaccinazione antipoliomelitica (a seguito dell’intervento della citata sentenza della Corte Costituzionale n. 27 del 1998), intercorsi in epoca antecedente alla introduzione dell’obbligo vaccinale, dall’entrata in vigore della Legge n. 362 del 1999. 

Nella medesima prospettiva, le Sezioni Unite, con sentenza del 22 luglio 2015, n. 14352, hanno ritenuto che il termine di decadenza triennale per l’indennizzo correlato a epatiti post-trasfuzionale dovesse decorrere dall’entrata in vigore della Legge (art. 1, co. 9, L. 238 del 1997) che tale tutela aveva riconociuto.

Sulla base delle medesime considerazioni, dunque, la sentenza in commento conclude che “L'effettività del diritto alla provvidenza dei soggetti danneggiati da vaccinazioni impone, pertanto, di far decorrere il termine perentorio di tre anni per la presentazione della domanda, fissato dall'art. 3, comma 1, della legge n. 210 del 1992, dal momento in cui l'avente diritto risulti aver avuto conoscenza dell'indennizzabilità del danno. Prima di tale momento, infatti, non è possibile che il diritto venga fatto valere, ai sensi del principio desumibile dall'art. 2935 cod. civ.”.

Il limite di tollerabilità delle immissioni non ha carattere assoluto ma è relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti.

Questo il principio riaffermato da Cass., 14 settembre 2022, n. 27036.

La vicenda culminata nella sentenza in esame trae origine dalla proposizione, da parte di società esercente attività di ristorazione, di una domanda di accertamento, ai sensi dell’art. 844 c.c. (sui limiti posti dalla norma al diritto di proprietà v., sul nostro sito, Roberto Lama "L’intollerabilità delle immissioni e la tutela della vivibilità dell’abitazione e della qualità della vita all’interno di essa"), del superamento del limite di tollerabilità delle immissioni olfattive provenienti dall’allevamento di maiali situato in prossimità del fondo.

La Corte territoriale ha attribuito la priorità d’uso (c.d. preuso), cui ha riguardo il comma 2, in favore della società di allevamento di maiali, ritenendo che non fosse necessario verificare quale attività - tra quella di ristorazione o quella di allevamento - fosse stata storicamente iniziata per prima. Ciò in base al duplice rilievo che, per un verso, entrambe le parti avevano trasformato radicalmente le preesistenti strutture aziendali da loro rispettivamente acquistate e, per altro verso, che sia la preesistente pizzeria sia il preesistente allevamento dei maiali avevano più volte interrotto la propria attività, rimanendo inattivi per diverso tempo.

La sentenza in commento ha ritenuto tale giudizio di fatto, sorretto da motivazione, e come tale non censurabile in sede di cassazione.

Occorre, in ogni caso, osservare che la giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito che “In materia di immissioni dannose (nella specie di natura olfattiva ed acustica) il criterio del preuso cui fa riferimento l'art. 844, comma 2, c.c. ha carattere sussidiario e facoltativo, sicché il giudice del merito, nella valutazione della normale tollerabilità delle immissioni, non è tenuto a farvi ricorso quando, in base agli opportuni accertamenti di fatto, e secondo il suo apprezzamento, incensurabile se adeguatamente motivato, ritenga superata la soglia di tollerabilità” (cfr., su tutte, Cass., 11 maggio 2005, n. 9865).

La sentenza in commento ha quindi condiviso le considerazioni della Corte d’Appello secondo cui “il concetto di normale tollerabilità sarebbe relativo e variabile, non riferibile alla sensibilità di colui che subisce le immissioni, ma da considerare in modo elastico in base alle caratteristiche della zona ed alle abitudini degli abitanti”. In questa prospettiva, dunque, la "condizione dei luoghi", cui ha riguardo l'art. 844 c.c., va riferita allo stato complessivo della zona circostante il fondo che subisce le esalazioni, a tal fine dovendosi avere riguardo alle sue caratteristiche-economiche ed alla prevalente tipologia delle attività, anche produttive, che vi si svolgono.

Questi argomenti si pongono nel solco del consolidato insegnamento del Supremo Collegio (v., in particolare, Cass., 5 novembre 2018, n. 28201, ove si legge: “Il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose non è mai assoluto, ma relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti, e non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia dalla fascia rumorosa costante della zona, su cui vengono ad innestarsi i rumori denunciati come immissioni abnormi. Non può giungersi a ritenere intollerabili le immissioni sonore sulla base del livello di rumorosità di fondo calcolato in un solo ambiente e in condizioni di assoluto silenzio, prescindendo dalle normali modalità di utilizzo degli immobili e dal livello di rumorosità della zona, correttamente rilevata”; nello stesso senso, da ultimo Cass., 20 gennaio 2023, n.1823, ed ancora, in precedenza, Cass., 5 agosto 2011, n. 17051).

La relatività della valutazione del limite di tollerabilità delle immissioni è – di converso – riferibile a tutti quei casi in cui tale limite sia fissato dalla legge o da provvedimenti amministrativi. In tali casi, la giurisprudenza ha precisato che “I parametri fissati da norme speciali ambientali di tipo amministrativo (espressione di esigenze di tutela pubblicistiche) per valutare la tollerabilità o meno delle immissioni non sono vincolanti per il giudice civile, che potrà discostarsene - nei limiti dettati dalla norma civilistica, secondo il suo prudente apprezzamento e in considerazione della peculiarità del caso concreto - pervenendo ad un giudizio di intollerabilità anche ove esse siano contenute in quei limiti.

Ne discende, quale corollario dei principi appena esposti, che dovrebbero ritenersi tollerabili in zone agricole immissioni olfattive che, di contro, sarebbero intollerabili in zone residenziali.

Applicando tali principi, i giudici di merito hanno affermato che le immissioni provenienti dall'allevamento di suini - in quanto non dovute “all'emissione dei reflui dei maiali nell'area, bensì agli odori fisiologicamente prodotti dagli animali, non diversamente eliminabili” - non dovessero ritenersi intollerabili in ragione del rilievo che l'azienda della società esercente attività di ristorazione era collocata in una zona a forte espansione agricola ed era circondata da fondi destinati all'agricoltura ed all'allevamento zootecnico.

La sentenza in commento ha ritenuto la valutazione operata dai giudici di merito, calibrata sul contemperamento, prescritto dal comma 2 dell’art. 844 c.c., delle “esigenze della produzione con le ragioni della proprietà”, integrare un accertamento di merito, come tale insindacabile in sede di legittimità.

Anche tale conclusione si pone nel solco della tradizionale giurisprudenza, secondo cui “la valutazione di intollerabilità, ove adeguatamente motivata nell'ambito dei principi direttivi indicati dal citato art. 844 c.c., con specifico riguardo al contemperamento delle esigenze della proprietà privata con quelle della produzione, costituisce accertamento di merito insindacabile in sede di legittimità” (Cass., ord. n. 23754 del 01/10/2018).

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