Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle società partecipate non è disciplinato dal d.lgs. n. 165 del 2001, bensì, in assenza di una disciplina derogatoria speciale, dalle norme del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro alle dipendenze di privati.
Questo il principio affermato dalla Cassazione con sentenza n. 35421 del 1° dicembre 2022.
A fronte di domanda di accertamento della qualifica superiore, i giudici del merito avevano accolto la domanda di condanna del datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive, escludendo il diritto al definitivo inquadramento nella qualifica superiore rivendicata. La Corte territoriale aveva, in particolare, fatto discendere l'applicazione della disciplina prevista per l’impiego pubblico contrattualizzato dalla natura sostanzialmente pubblica del capitale impiegato dalle società partecipate.
La sentenza in commento prende le mosse dalla natura delle società partecipate, richiamando l’insegnamento delle Sezioni Unite che, decidendo sul riparto di giurisdizione fra giudice ordinario, contabile ed amministrativo, hanno evidenziato che la partecipazione pubblica non muta la natura di soggetto privato della società, che resta assoggettata al regime giuridico proprio dello strumento privatistico adoperato, salve specifiche disposizioni di segno contrario o ragioni ostative di sistema che portino ad attribuire rilievo alla natura pubblica del capitale impiegato e del soggetto che possiede le azioni della persona giuridica (Cass. s.u. 1° dicembre 2016, n. 24591; Cass. s.u. 27 marzo 2017, n. 7759 Cass. S.U., 11 novembre 2019, n. 29078).
Per quel che concerne la disciplina applicabile ai rapporti di lavoro, il quadro normativo di riferimento è rappresentato, in materia, dal D.Lgs. n. 175 del 2016, che all’art. 1, co. 3, dispone che “per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato”. Con specifico riferimento al rapporto di lavoro è previsto che “salvo quanto previsto dal presente decreto, ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle società a controllo pubblico si applicano le disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile, dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, ivi incluse quelle in materia di ammortizzatori sociali, secondo quanto previsto dalla normativa vigente, e dai contratti collettivi” (art. 19, comma 1).
Ciò premesso, è discussa in giurisprudenza e dottrina l’applicabilità della disciplina dell’art. 2103 c.c. ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle società partecipate.
Sotto un primo profilo, la sentenza in commento ritiene inapplicabile, anche in via analogica, al rapporto di lavoro alle dipendenze delle società partecipate, l’art. 52 D.Lgs. n. 165 del 2001, che esclude, con riguardo agli enti pubblici, che dall’esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza discenda l'inquadramento del lavoratore nella superiore qualifica. Trattasi, infatti, a giudizio della Corte, di disposizione speciale non estensibile ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle società a partecipazione pubblica.
Né potrebbe trovare applicazione alla fattispecie in esame, l’orientamento, inaugurato da Cass. n. 3621/2018 (e ribadito dalle più recenti Cass. n. 4571/2022 e Cass. n. 27126/2022), che ha escluso l'invocata conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato del contratto a termine affetto da nullità. Osserva, infatti, la Corte che a tele conclusione si è pervenuti non valorizzando la disciplina dell’art. 36, D.Lgs. n. 165 del 2001, inapplicabile alle società partecipate, “bensì la norma, cogente e derogatoria rispetto alla disciplina generale di diritto privato, che, a partire dall'entrata in vigore dell'art. 18 del D.L. n. 112 del 2008, ha imposto alle società partecipate di attenersi nel reclutamento del personale ai medesimi principi di trasparenza, pubblicità e imparzialità che stanno alla base del concorso pubblico e, quindi, ha subordinato la valida instaurazione del rapporto di lavoro al previo esperimento di procedure di evidenza pubblica”. Si tratta quindi di disposizione imperativa non rinvenibile nel passaggio da una qualifica ad un’altra.
Con riguardo alla gestione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle società partecipate, la Corte rileva come il legislatore ponga a carico della società esclusivamente l’obbligo di perseguire nelle politiche inerenti al personale il contenimento dei costi, (cfr. D.Lgs. n. 175 del 2016, art. 19 e, in epoca antecedente, D.L. n. 112 del 2008, art. 18). Tale previsione ha fissato una regola di comportamento per gli amministratori delle partecipate, e dalla stessa non si può desumere - a giudizio della sentenza in esame - la nullità degli atti adottati dalla società in violazione delle direttive date dal socio pubblico, perché il legislatore non ha previsto un meccanismo analogo a quello pensato per l'impiego pubblico contrattualizzato.
La corte, dunque, conclude che “fermo restando che le procedure di reclutamento imposte dalle disposizioni inderogabili più volte richiamate costituiscono formalità necessarie per l'instaurazione del rapporto alle dipendenze delle società controllate, rapporto del quale condizionano la validità, sulla previsione delle stesse non si può fare leva per ritenere derogata, in assenza di un'espressa previsione normativa, la disciplina delle mansioni del rapporto già costituito, sia perché alle società partecipate non possono essere estesi né il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, né i principi affermati dalla Corte Costituzionale in tema di concorsi pubblici interni, sia in quanto la nullità virtuale ex art. 1418 c.c., comma 1, richiede che la norma proibitiva si riferisca al contratto o all'atto del quale si vuole porre in discussione la validità”.
La decadenza dall’impugnativa stragiudiziale, prevista dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. d), non si applica ove non si rinvenga un atto che neghi la titolarità del rapporto.
Questo il principio affermato dall’ordinanza resa dalla Cassazione in data 21 novembre 2022, n. 34181.
Giova rammentare che la L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 3, prevede che: "Le disposizioni di cui alla L. 15 luglio 1966, art. 6, come modificato dal comma 1, del presente articolo, si applicano anche: … d) in ogni altro caso in cui, compresa l'ipotesi prevista dal D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 27, si chieda la costituzione o l'accertamento di un rapporto di lavoro in capo ad un soggetto diverso dal titolare del contratto".
L’ordinanza in commento ha escluso che il termine di decadenza possa trovare applicazione alla richiesta di costituzione o di accertamento di un rapporto di lavoro, ormai risolto, in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto, ove manchi un provvedimento in forma scritta o un atto equipollente che neghi la titolarità del rapporto stesso. E ciò sulla base di molteplici ragioni.
In primo luogo, venendo in rilievo una limitazione temporale per l'esercizio dell'azione giudiziaria di notevole incidenza sui diritti del lavoratore, alla norma deve essere attribuito carattere di eccezionalità, imponendosene una interpretazione particolarmente rigorosa.
Nel senso della impossibilità di una interpretazione estensiva dall’art. 32, lett. d) si è espressa, tra le tante, Cass. civ. Sez. lavoro, 7 novembre 2019, n. 28750, che ha escluso l’applicabilità dei termini di decadenza, previsto dall’art. 32, n. 4, lett. c) e d), L. 183/10, all’ipotesi del lavoratore che non impugna la cessione del contratto di lavoro nell'ambito di un trasferimento ex art. 2112 c.c., ma, all'inverso, la rivendica. E ciò perché, il legislatore utilizzando la locuzione "in ogni altro caso in cui, compresa l'ipotesi prevista dal D.Lgs. 20 settembre 2003, n. 276, art. 27....", ha inteso “escludere le fattispecie riconducibili, in qualche modo, a quelle già regolate dalle diverse lettere della norma in questione”. Pertanto, se “il fenomeno della cessione del contratto di lavoro, avvenuta ai sensi dell'art. 2112 c.c., è stata già disciplinata dal legislatore (lett. c), nella misura in cui risulta essere stata precisata e limitata da questa Corte di legittimità, non può poi una fattispecie relativa allo stesso fenomeno, ma posta in termini differenti e già esclusa dalla ipotesi tipizzata, considerarsi disciplinata dalla norma di chiusura di natura eccezionale” (nello stesso senso, Cass., 4 aprile 2019, n. 9469).
Sotto altro profilo, l’introduzione di “nuovi termini decadenziali per l’esercizio d’un diritto appartiene alla discrezionalità del legislatore” e non potrebbe determinare, “nel bilanciamento di interessi costituzionalmente rilevanti, il totale sacrificio o la compromissione eccessiva di uno di essi, dovendosi invece tenere conto della proporzionalità dei messi rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare e delle finalità che si vogliono perseguire, considerate le circostanze e le limitazioni concretamente sussistenti”. Su queste premesse, a giudizio del Supremo Collegio, ammettere “il decorso della decadenza anche in difetto d'una formale comunicazione di cessazione di tale utilizzo renderebbe eccessivamente aleatorio l'esercizio del diritto d'azione del lavoratore, stante l'intrinseca difficoltà di identificarne con esattezza il dies a quo”.
Inoltre, dalla applicazione del termine di decadenza, anche a fattispecie in cui manchi un provvedimento datoriale che neghi la sussistenza del rapporto di lavoro, deriverebbe un’aporia rispetto al combinato disposto degli artt. 6 L. n. 604/1966 e 32 L. n. 183/2010 e alla consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione.
In questo senso, è fermo l’orientamento che esclude l’applicabilità del termine di decadenza dall'impungativa del recesso datoriale, previsto dall’art. 6 L. 604/1966, in caso di licenziamento orale (Cass., 11 gennaio 2019, n. 523).
Con riguardo poi al contratto di collaborazione a progetto - risoltosi per effetto della manifestazione di volontà del collaboratore di voler recedere dal rapporto, ovvero cessato per la sua naturale scadenza - presso la Corte di Cassazione si è andato consolidando l’orientamento che esclude l’estensibilità del termine decadenziale, riferendosi il regime decadenziale di cui all’art. 32, co. 3, lett. b), L. 183/2010 al caso di recesso del committente e mancando, in ogni caso, “un atto che il lavoratore abbia interesse a contestare o confutare” (Cass., 8 luglio 2020, n.14131); in tal caso, l’azione di accertamento della subordinazione e del diritto alla riammissione in servizio può essere esercitata nell’ordinario termine prescrizionale.
L’ordinanza in esame si inserisce, dunque, nel solco della più recente giurisprudenza di legittimità che, proprio con riferimento alla richiesta di accertamento dell’illiceità dell’appalto (o della interposizione fittizia) ha escluso l’applicabilità della decadenza di cui all’art. 32, co. 3, lett. d), L. 183/2010, sul presupposto che “sia nei casi di richiesta di costituzione (ove è chiara la volontà dell'istante di ripristino immediato e/o di stabilizzazione) sia nei casi di richiesta di accertamento (ove l'azione dichiarativa richiede un accertamento "ora per allora") del rapporto di lavoro alle dipendenze di un soggetto diverso dal titolare del contratto, occorre pur sempre un atto o un provvedimento datoriale che renda operativo e certo il termine di decorrenza della decadenza di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. d), in un'ottica di bilanciamento di interessi costituzionalmente rilevanti” (in questi termini, di recente, Cass. n. 40652 del 17 dicembre 2021, commentata sul nostro sito: “Decadenza dall’accertamento del rapporto di lavoro con datore diverso da quello formale”).
Nell’ordinanza in commento, la Corte esclude che il dies a quo del termine di decadenza possa coincidere “nell'esatta data di scadenza dell'appalto medesimo con l'impresa appaltatrice, vuoi perché una precisa data di scadenza ben può mancare, vuoi perché di essa il lavoratore - vale a dire il soggetto onerato dell'impugnativa - normalmente non è a conoscenza”.
Ancora di recente, Cass., 28 ottobre 2021, n. 30490 ha ritenuto non applicabile “l'art. 39, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2015 - che prevede l'applicazione del termine di decadenza di 60 giorni e la sua decorrenza "dalla data in cui il lavoratore ha cessato di svolgere la propria attività presso l'utilizzatore" - … essendo riferito alla sola somministrazione di lavoro e non anche all'appalto illecito, sicchè in virtù del carattere di stretta interpretazione delle norme sulla decadenza, non è suscettibile di estensione analogica
Né rileverebbe, ai fini del decorso del termine decadenziale, la data “dell'eventuale licenziamento intimato dall'interposto nel rapporto di lavoro: tale licenziamento è giuridicamente inesistente perché proviene da soggetto diverso da quello che si assume essere il reale datore di lavoro”.
Sulla base delle considerazioni e dei principi sopra passati in rassegna, il Collegio conclude che non possa estendersi “analogicamente ad un "fatto" (la cessazione dell'attività del lavoratore presso il committente) una norma (l'art. 32 cit.) calibrata in relazione ad "atti" scritti e recettizi o ad un diverso e tipizzato fatto (scadenza del contratto a tempo determinato)”.
Il giudice deve accertare la sussistenza del nesso di causalità tra l'inoculazione del vaccino e i pregiudizi lamentati, tenendo conto non solo della sicurezza del farmaco, per come affermata dalla letteratura scientifica, sulla base di leggi statistiche, ma anche delle acquisizioni probatorie.
Questo il principio affermato dalla Corte di Cassazione, con sentenza del 18 novembre 2022, n. 34027.
La vicenda processuale trae origine dal ricorso proposto da persona che ha riportato gravi danni in concomitanza con la somministrazione della terza dose del vaccino antipolio. Il ricorrente, in particolare, ha lamentato il comportamento colpevole del Ministero della Salute per non avere adottato tutte le cautele necessarie a evitare l’immissione in commercio di un vaccino non adeguatamente confezionato e per avere somministrato la terza dose del vaccino, nonostante l’insorgenza di gravi reazioni avverse in seguito alla somministrazione delle prime due dosi.
Il Tribunale di Roma aveva accolto, in parte, la domanda risarcitoria in relazione alla sindrome post polio, respingendo quella relativa ai danni insorti dopo la vaccinazione per prescrizione del credito risarcitorio.
La Corte d’Appello ha ritenuto che non fosse stata fornita la prova che il vaccino fosse pericoloso, e che lo stesso, anzi, all’epoca dei fatti era considerato sicuro dalla comunità scientifica. Ha quindi affermato che al fine di valutare la ricorrenza di detta pericolosità non avrebbe dovuto essere preso in considerazione il c.d. incidente Cutter, da cui erano scaturiti eventi dannosi non collegati alla pericolosità del vaccino antipolio, ma alla difettosità del lotto somministrato. Di conseguenza, il Ministero non poteva essere ritenuto responsabile per i danni derivanti dalla somministrazione di un vaccino che la letteratura scientifica riteneva sicuro.
Tale decisione è stata impugnata dall’originario ricorrente sotto il profilo della violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, non essendo stata dedotta in giudizio l’astratta pericolosità del vaccino, bensì la connessione tra la somministrazione delle tre dosi e l’insorgenza della poliomielite in conseguenza della responsabilità per colpa del Ministero.
La sentenza in esame – escluso il vizio di ultrapetizione – ha altresì ritenuto che la Corte territoriale è incorsa in errore per avere deciso “senza preoccuparsi di prendere in considerazione tutto il corredo istruttorio e le risultanze della relazione peritale, anche solo allo scopo di escludere che da essa emergesse la dimostrazione del nesso causale ovvero al fine di discostarsene”. Nella sostanza, la Corte d’Appello “si è limitata a discostarsi sul punto dalla decisione del Tribunale, ma non ha proceduto ad una propria valutazione del merito della vicenda, sulla scorta degli elementi di prova a sua disposizione, allo scopo di verificare se una volta esclusa la pericolosità del vaccino, da intendersi alla stregua della potenzialità del vaccino Salk, per le sue caratteristiche, di provocare danni in astratto, lo stesso avesse provocato la paralisi, perché appartenente ad un lotto non correttamente confezionato o prodotto o perché non avrebbe dovuto essere somministrato in quella particolare circostanza”.
Così argomentando la Corte territoriale si è discostata dal costante insegnamento del Supremo Collegio, secondo cui è sempre necessaria “l'analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo, della singola vicenda di danno, della singola condotta causalmente efficiente alla produzione dell'evento, tutte a loro volta permeate di una non ripetibile unicità. L'ineludibile esigenza di ancorare l'accertamento del nesso causale alla concretezza della vicenda storica comporta una traslazione della regola sostanziale in quella processuale, tale che la valorizzazione del caso concreto non risulti svalutazione della legge scientifica, soprattutto nella sua declinazione di legge statistica, per dar corpo ad "ideali aneliti riparatori tout court"... ma impone di calare il giudizio sull'accertamento del nesso causale all'interno del processo, così da verificare, secondo il prudente apprezzamento rimesso al giudice del merito... la complessiva evidenza probatoria del caso concreto e addivenire, all'esito di tale giudizio comparativo, alla più corretta delle soluzioni possibili” (cfr. Cass. 27/07/2021, n. 21530).
A giudizio del Supremo Collegio, dunque, i Giudici del merito avrebbero dovuto “valutare scrupolosamente il quadro indiziario fornito dalla parte danneggiata per stabilire, nel caso specifico, l'eventuale inferenza tra la somministrazione del farmaco e l'evento lesivo”.
A tale conclusione la Corte giunge anche attraverso il richiamo alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sez. II, 21 giugno 2017, n. 621, la quale ha chiarito che “La mancanza della prova scientifica della dannosità di un vaccino, confermata cioè da un consesso o autorità professionale, non può impedire l'individuazione processuale di un nesso di causalità tra l'inoculazione del farmaco e l'insorgere della malattia. Tuttavia, il giudice investito della causa deve valutare scrupolosamente il quadro indiziario fornito dalla parte danneggiata per stabilire, nel caso specifico, l'eventuale inferenza tra la somministrazione del farmaco e l'evento lesivo”.