Il licenziamento intimato al lavoratore assente per malattia è nullo se i giorni di assenza non superano il periodo di comporto previsto nella contrattazione collettiva. Questo il principio riaffermato dalla Corte d’Appello di Torino con sentenza del 5 agosto 2022, n. 315.

La vicenda processuale trae origine dal ricorso proposto da un lavoratore avverso il licenziamento intimato par asserito superamento del comporto. Il Tribunale, accertato il mancato superamento del comporto, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento e, in applicazione dell’art. 3 D.Lgs. 23/15 (jobs act), ha dichiarato estinto il rapporto alla data del licenziamento con condanna della società convenuta al pagamento di un’indennità risarcitoria nella misura di 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR.

La Corte d’Appello di Torino, premesso che il datore di lavoro non aveva assolto l’onere di provare che i giorni di assenza per malattia avevano determinato il superamento del comporto, ha confermato la sentenza di primo grado in punto illegittimità del licenziamento.

La Corte, tuttavia, ha ritenuto che il licenziamento, in quanto disposto in violazione dell’art. 2110 co. 2, da considerarsi norma imperativa, è nullo. Ha quindi ritenuto applicabile l’art. 2 D.Lgs. 23/15, che dispone la tutela reintegratoria, unitamente a quella indennitaria, per il licenziamento discriminatorio e per i casi di recesso “riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”.

Conseguentemente, la sentenza in esame ha dichiarato la nullità del licenziamento e condannato il datore di lavoro alla reintegra del dipendente nel posto di lavoro e alla corresponsione di un’indennità commisurata alle retribuzioni decorrenti dal licenziamento alla reintegra.

Gli argomenti proposti dalla Corte d’Appello di Torino si pongono nel solco di un orientamento che è andato consolidandosi presso la giurisprudenza di legittimità a partire dall’intervento delle Sezioni Unite con sentenza del 22 maggio 2018, n. 12568.

La Corte di Cassazione, nella sua composizione più autorevole, ha chiarito come “il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una fattispecie autonoma di licenziamento, vale a dire una situazione di per sè idonea a consentirlo, diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo”. D’altronde, “il mero protrarsi di assenze oltre un determinato limite stabilito dalla contrattazione collettiva - o, in difetto, dagli usi o secondo equità - di per sè non costituisce inadempimento alcuno (trattandosi di assenze pur sempre giustificate)”.

La Corte ha quindi affermato il carattere imperativo dell’art. 2110, co. 2, c.c., in quanto norma a tutela del diritto alla salute, che non potrebbe “essere adeguatamente protetta se non all'interno di tempi sicuri entro i quali il lavoratore, ammalatosi o infortunatosi, possa avvalersi delle opportune terapie senza il timore di perdere, nelle more, il proprio posto di lavoro”.

Su queste premesse, nella ricostruzione delle Sezioni Unite, il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia del lavoratore, ma prima del superamento del periodo di comporto, non è soltanto inefficace fino a tale momento, bensì deve ritenersi nullo per violazione dell'art. 2110 cod. civ., co. 2, c.c.

Di recente, nello stesso senso si sono espresse Cass., 28 luglio 2022, n.23674 e, ancora, Cass., 19 luglio 2022, n. 19661.

La soluzione adottata dalla Corte d’Appello di Torino, quanto alla nullità del licenziamento intimato prima del superamento del periodo di comporto, e al regime di tutela in favore del lavoratore è dunque pienamente conforme al più recente insegnamento della giurisprudenza di legittimità.

Si deve, infine, rilevare, quale elemento di riflessione, come la tutela in favore del lavoratore nel regime di vigenza del D.Lg. 23/15 (e dunque per i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015), in conseguenza della nullità del licenziamento in violazione dell’art. 2110, 2° co., c.c., non sia in linea con le conseguenze previste per il provvedimento affetto da identico vizio ma reso nei confronti del lavoratore assunto in epoca antecedente all’entrata in vigore del D.Lgs. 23/15.

Infatti, in forza di quanto previsto dall’art. 18, L. n. 300 del 1970, applicabile ai lavoratori assunti fino al 7 marzo 2015, la violazione dell'art. 2110, co. 2, c.c. è ricondotta al regime di tutela di cui al comma 7 (reintegrazione più risarcimento nel limite delle 12 mensilità) e non a quella c.d. piena (di cui al comma 1). E, come rilevato dalla stessa Cass., Sez. Un., n. 12568 del 2018, la disposizione in questione è norma speciale rispetto al regime generale di nullità del licenziamento e dunque trova applicazione nel regime previgente.

Il datore di lavoro può rivolgersi a soggetti terzi (ed in particolare ad agenzia investigativa) per lo svolgimento di attività di controllo sui lavoratori dipendenti ma solo nei limiti relativi all'accertamento di eventuali illeciti. Questo il principio ribadito dalla Cassazione, con la ordinanza n. 25287 del 24 agosto 2022.

La vicenda trae origine dal licenziamento di un lavoratore cui era stato contestato di essersi allontanato dal luogo di lavoro, per ragioni estranee all’attività lavorativa, a seguito di controlli effettuati da agenzia investigativa.

La Corte territoriale, a quanto è dato desumere dalla pronuncia in commento, ha ritenuto legittimi i controlli in ragione della particolare diligenza richiesta nell’ambito del rapporto bancario, nonché in relazione alla circostanza che le investigazioni erano correlate ad una più ampia indagine, riguardante altro dipendente, attinente alla illegittima fruizione dei permessi ai sensi dell’art. 33 Legge 104 del 1992.

La disposizione di riferimento è l’art. 2 L. 300/70 (Statuto dei Lavoratori), a norma del quale “Il datore di lavoro può impiegare le guardie particolari giurate, … soltanto per scopi di tutela del patrimonio aziendale. Le guardie giurate non possono contestare ai lavoratori azioni o fatti diversi da quelli che attengono alla tutela del patrimonio aziendale. È fatto divieto al datore di lavoro di adibire alla vigilanza sull'attività lavorativa le guardie di cui al primo comma, le quali non possono accedere nei locali dove si svolge tale attività, durante lo svolgimento della stessa, se non eccezionalmente per specifiche e motivate esigenze attinenti ai compiti di cui al primo comma”.

L’art. 3 dello Statuto dei Lavoratori riserva, invece, il controllo dell'attività lavorativa al personale interno preventivamente individuato dal datore di lavoro.

Le norme da ultimo richiamate contemperano il potere di controllo del datore di lavoro con il diritto di riservatezza del lavoratore. In questa prospettiva, “l'esigenza, pur meritevole di tutela, del datore di lavoro di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti non può assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore” (Cass, 27 maggio 2015, n. 10955).

In particolare, gli artt. 2 e 3 Statuto dei Lavoratori, a tutela della libertà e dignità del lavoratore, delimitano la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei suoi interessi con specifiche attribuzioni nell'ambito dell'azienda, ma non escludono il potere dell'imprenditore, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., di controllare direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica o anche attraverso personale esterno - costituito in ipotesi da dipendenti di una agenzia investigativa - l'adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti già commesse o in corso di esecuzione, e ciò indipendentemente dalle modalità del controllo, che può avvenire anche occultamente (in questi termini, ancora Cass, n. 10955/2015)

Per consolidata giurisprudenza del Supremo Collegio, il datore di lavoro può rivolgersi a soggetti terzi, ed in particolare ad una agenzia investigativa, per lo svolgimento di attività di controllo sui lavoratori dipendenti solo per l’accertamento di atti illeciti. Tale controllo non può dunque sconfinare nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria, riservata, dall'art. 3 dello Statuto, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori (cfr., in tali termini, Cass. n. 9167 del 2003).

Pertanto, è giustificato il controllo mediante agenzia investigativa non solo per l'avvenuta perpetrazione di illeciti, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (Cass., 9 luglio 2008, n. 18821). Né a ciò ostano sia il principio di buona fede, “ben potendo il datore di lavoro decidere autonomamente come e quando compiere il controllo, anche occulto, ed essendo il prestatore d'opera tenuto ad operare diligentemente per tutto il corso del rapporto di lavoro” (v. Cass., 11 giugno 2018, n.15094).

Così, il controllo demandato alla agenzia investigativa, espletato al di fuori dell'orario di lavoro, è ritenuto legittimo nel caso di verifica sull'attività extralavorativa svolta dal lavoratore in violazione del divieto di concorrenza (Cass. n. 12810 del 2017) ovvero nel caso di controllo finalizzato all'accertamento dell'utilizzo improprio, da parte di un dipendente, dei permessi L. n. 104 del 1992, ex art. 33 (v. Cass., 4 marzo 2014, n. 4984).

Dall’esame, pur sommario, del panorama giurisprudenziale così tracciato, può trarsi il principio della ammissibilità dei controlli difensivi "occulti", anche ad opera di personale estraneo all'organizzazione aziendale, in quanto diretti all'accertamento di comportamenti illeciti diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, pur sempre nel rispetto dei generali principi di correttezza e buona fede.

L’ordinanza in commento, riprendendo il costante insegnamento della giurisprudenza della medesima Cassazione, ha concluso nel senso della illegittimità del controllo mediante agenzia investigativa nei confronti del lavoratore, “ancorché occasionata da analogo, pur legittimo, controllo nei confronti di altro dipendente”, in quanto effettuata nell'orario di lavoro del ricorrente, cioè durante l'espletamento dell'attività lavorativa da parte sua”, così finendo “con l'incidere direttamente e, quindi, al di fuori dei limiti consentiti, su detta attività”.

Non integra una cessione di ramo d’azienda, ma di tutta l’azienda, il trasferimento di alcuni reparti, privi di autonomia e caratterizzati da fungibilità del personale, all’interno di un esercizio commerciale dotato, nel suo complesso, di unitarietà funzionale e operativa.


Questo il principio affermato da tre recenti sentenze di merito (Corte d’appello di Torino, 26 maggio 2022; Tribunale di Lodi 1° giugno 2022 e Tribunale di Busto Arsizio 15 febbraio 2022) chiamate a pronunciarsi sulla domanda di lavoratori che assumevano di essere stati illegittimamente esclusi dal trasferimento alle dipendenze della cessionaria di uno o più reparti di un ipermercato.     

Nelle fattispecie decise dalle sentenze in esame, le società titolari dell’attività commerciale avevano frazionato gli ipermercati in un reparto food e in un reparto no food, identificando gli stessi come rami d’azienda. Avevano quindi configurando la cessione del primo reparto food come trasferimento di ramo d’azienda, così escludendo dalla cessione i lavoratori addetti agli altri reparti, collocati in cassa integrazione.

La giurisprudenza di legittimità è consolidata nel ritenere che “Ai fini del trasferimento di ramo d'azienda previsto dall'art. 2112 c.c., anche nel testo modificato dall'art. 32 del d.lgs. n. 276 del 2003, costituisce elemento costitutivo della cessione l'autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la sua capacità, già al momento dello scorporo, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere - autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario - il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell'ambito dell'impresa cedente al momento della cessione” (Cass., 4 agosto 2021, n. 22249).

L'elemento costitutivo dell'autonomia funzionale va quindi letto in reciproca integrazione con il requisito della preesistenza, e ciò anche in armonia con la giurisprudenza della Corte di Giustizia secondo la quale l'impiego del termine “conservi” nell'art. 6, par. 1, commi 1 e 4 della direttiva 2001/23/CE, “implica che l'autonomia dell'entità ceduta deve, in ogni caso, preesistere al trasferimento” (Corte di Giustizia, 6 marzo 2014, C-458/12; Corte di Giustizia, 13 giugno 2019, C-664/2017).

Nelle sentenze sopra citate, si rileva, sulla base delle peculiarità delle fattispecie, come non fosse possibile individuare all’interno del punto vendita degli autonomi e funzionali rami d’azienda preesistenti alla cessione, atteso che i singoli reparti (alimentare, tessile, abbigliamento, ecc.) rappresentavano una suddivisione merceologica, ma non erano dotati di autonomia contabile e finanziaria.

A seguito dell’accertamento operato dai giudici di merito, nei casi decisi dalle sentenze sopra citate, è risultato che nessuna attività è residuata in capo al presunto “ramo d’azienda” rimasto in capo alla cedente, essendo lo stesso costituito da un insieme di beni non organizzati, e dunque non idonei a proseguire l’attività d’impresa.

Operazioni del tipo di quelle sopra descritte, dunque, configurano il tentativo di aggirare le disposizioni poste a tutela dei lavoratori, ed in particolare l’art. 2112 c.c. e la L. 223/91 sui licenziamenti collettivi.

Pertanto, in caso di cessione di singoli reparti di un esercizio commerciale dotato, nel suo complesso, di unitarietà funzionale e operativa, non è trasferito un ramo d’azienda ma l’intera azienda (sia pure con l’esclusione di singoli beni), con conseguente diritto al passaggio alla cessionaria di tutti i lavoratori.

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