La Corte di Cassazione, con ordinanza del 1 settembre 2021, n. 23723, ha dichiarato nullo il recesso dal patto di non concorrenza dichiarato dal datore di lavoro (anche) in costanza di rapporto.
La fattispecie trae origine dalla domanda di una lavoratrice diretta ad ottenere il compenso pattuito nell’ambito di un patto di non concorrenza “per i due anni successivi alla cessazione del rapporto”. Sul presupposto che il datore di lavoro aveva dichiarato il recesso sei anni prima della risoluzione del rapporto di lavoro, la Corte territoriale ha escluso potesse configurarsi alcun pregiudizio per la lavoratrice e dichiarato la legittimità del diritto di recesso, ove esercitato per il periodo antecedente la cessazione del rapporto di lavoro. L’ordinanza in commento ha cassato il provvedimento.
La pronuncia dichiara di voler dar seguito all’insegnamento della sentenza n. 3 del 2018, che aveva dichiarato la nullità, per violazione dell’art. 2125 c.c., della clausola che attribuiva al datore di lavoro il diritto di recesso dal patto di non concorrenza alla data di cessazione del rapporto, o per il periodo successivo, nell’arco temporale di vigenza dell’obbligo di non concorrenza. Nel precedente citato, la Corte aveva ritenuto che l’unilaterale libertà di recesso vanificherebbe le valutazioni sulla base delle quali il lavoratore ha accettato una limitazione alla libertà di lavoro, privandolo – in un momento nel quale si è predisposto per adempiere all’obbligo già vigente - del corrispettivo (il diritto alla erogazione del quale era sorto, nei casi decisi dal Supremo Collegio, solo al momento della cessazione del rapporto).
In epoca ancor più recente, la Cassazione, con ordinanza del 3 giugno 2020, n. 10535 (per un commento alla quale si rimanda al nostro “Il diritto di recesso in favore del datore di lavoro nel patto di non concorrenza ex art. 2125 C.C. (CASS., ORD. 3.6.2020, N. 10535/20)”), si è spinta oltre, ritenendo applicabile il medesimo principio anche alla (diversa) ipotesi in cui “il recesso dal patto di non concorrenza sia avvenuto in costanza di rapporto di lavoro” .
Nel solco di quest’ultimo precedente l’ordinanza in commento, ha ritenuto irrilevante “il fatto che, nella fattispecie, il recesso dal patto di non concorrenza sia avvenuto in costanza di rapporto di lavoro” poichè “i rispettivi obblighi si sono cristallizzati al momento della sottoscrizione del patto, il che impediva al lavoratore di progettare per questa parte il proprio futuro lavorativo e comprimeva la sua libertà”. Rileva la Corte che “detta compressione, … ai sensi dell'art. 2125 c.c., non poteva avvenire senza l'obbligo di un corrispettivo da parte del datore: corrispettivo che, nella specie, finerebbe per essere escluso ove al datore stesso venisse concesso di liberarsi ex post dal vincolo”.
Sotto un primo profilo, è invero opinabile che “i rispettivi obblighi si sono cristallizzati al momento della sottoscrizione del patto”. In realtà, il vincolo concorrenziale a carico del lavoratore sorge solo al momento della cessazione del rapporto di lavoro.
E questo pare anche l’assunto da cui muovono i precedenti, di cui la stessa ordinanza si dichiara tributaria (in particolare, Cass. n. 212 del 2013 e Cass. 3 del 2018), concludendo che il recesso esercitato al momento della cessazione del rapporto (o in epoca successiva) opera su un obbligo di non concorrenza già sorto. Al contrario, il diritto di recesso attribuito al datore in costanza di rapporto non potrebbe spiegare alcun effetto sulle valutazioni di convenienza operate dal lavoratore al momento della sottoscrizione del patto, incidendo su un obbligo non ancora sorto.
Una riflessione forse più approfondita merita poi l’affermazione secondo cui la limitazione della libertà del lavoratore, dalla sottoscrizione del patto al recesso del datore, sarebbe rimasta priva di corrispettivo.
Anche a voler ammettere che la sola sottoscrizione del patto di non concorrenza comprometta la libertà del lavoratore “di progettare per questa parte il proprio futuro lavorativo”, il riferimento alla assenza di corrispettivo, a fronte di tale limitazione, sarebbe pertinente alle sole fattispecie (come in effetti sembrerebbe essere quella decisa dalla Corte) in cui il pagamento del corrispettivo del patto di non concorrenza sia previsto in epoca successiva alla cessazione del rapporto.
Ragionando nei medesimi termini proposti dall’ordinanza in esame, a diverse conclusioni dovrebbe, invece, giungersi nelle ipotesi – largamente diffuse nella prassi - in cui sia previsto il pagamento del corrispettivo in costanza di rapporto. In questo caso, a seguito dello scioglimento del patto in costanza di rapporto, il lavoratore si troverebbe nella – assai vantaggiosa – situazione di acquisire comunque il corrispettivo erogato e di essere ancora titolare di un rapporto di lavoro, senza dover veder limitata la propria libertà di ricollocamento anche in caso di (futura) cessazione del rapporto di lavoro.
È, anzi, dotata di intrinseca ragionevolezza la previsione di un corrispettivo (per il vincolo scaturente dalla sottoscrizione del patto) direttamente proporzionale alla durata del sacrificio derivante al lavoratore alla libertà di progettare il proprio futuro per il periodo successivo alla sottoscrizione del patto.
È auspicabile, dunque, che – anche ove si ritenga che il vincolo contrattuale sorga già con la sottoscrizione del patto – si operi una disamina della concreta regolamentazione pattizia, distinguendo le clausole che attribuiscano al datore di lavoro il diritto di recedere dal patto al momento della cessazione del rapporto, o in epoca successiva (quando, in effetti, il lavoratore si sia già predisposto ad adempiere) da quelle in cui il recesso sia esercitabile in epoca antecedente alla cessazione del rapporto di lavoro e il corrispettivo pagato in costanza di rapporto.
Strada spianata, dunque, per i lavoratori desiderosi di svincolarsi da un patto di non concorrenza per poter cominciare a lavorare con un competitor dell’ex – datore di lavoro, dunque? In realtà no, perché qui, come detto, la pretesa fatta valere dalla lavoratrice era relativa al pagamento del corrispettivo per il patto, pur essendo intervenuto il recesso datoriale dallo stesso; nel caso in cui la prospettazione di nullità della clausola relativa al recesso fosse funzionale ad ottenere l’invalidazione dell’intero patto di non concorrenza, si porrebbe il problema della – niente affatto scontata ed anzi sovente implausibile – essenzialità della clausola relativa al diritto di recesso, la quale soltanto potrebbe condurre alla declaratoria di nullità, ex art. 1419, 1° co. c.c., dell’intero patto di non concorrenza.
Il Tar Lazio, con due decreti n. 4531 e 4532 del 2 settembre 2021 (che si allegano in calce), ha dichiarato la legittimità dei provvedimenti ministeriali che prevedono la sospensione del docente senza green pass, atteso che il diritto a non vaccinarsi non è assoluto e intangibile in presenza di diritti fondamentali di rango superiore come quello alla salute pubblica.
La vicenda processuale origina da due ricorsi proposti da alcuni docenti e da una sigla sindacale (Anief) nei confronti del Ministero dell’Istruzione per l’annullamento:
I provvedimenti impugnati dai docenti ricorrenti costituiscono la mera applicazione delle previsioni di cui all’art. 9 ter D.L. 52/2021, il quale – “al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell'erogazione in presenza del servizio essenziale di istruzione” – pone in capo a “tutto il personale scolastico del sistema nazionale di istruzione e universitario, nonché gli studenti universitari” l’obblogo di possedere ed esibire “la certificazione verde COVID-19”. Il comma 2 della medesima norma individua, nel mancato rispetto delle disposizioni cui sopra, una “assenza ingiustificata e a decorrere dal quinto giorno di assenza il rapporto di lavoro” con sospensione dal lavoro e dalla retribuzione.
Già sotto tale profilo, dunque, le previsioni ministeriali non possono riteneresi illegittime.
A quanto è dato desumere dalla parte motivata, i ricorrenti individuano nelle previsioni dei provvedimenti impugnati una violazione (o, almeno, limitazione) del diritto alla salute, che troverebbe concretizzazione nel diritto a non vaccinarsi.
Il Tar rileva che tale diritto “non ha valenza assoluta né può essere inteso come intangibile, avuto presente che deve essere razionalmente correlato econtemperato con gli altri fondamentali, essenziali e poziori interessi pubblici quali quello attinente alla salute pubblica a circoscrivere l’estendersi della pandemia e a quello di assicurare il regolare svolgimento dell’essenziale servizio pubblico della scuola in presenza”.
Il Tribunale, dunque, non si ferma al piano formalistico, ma opera un bilanciamento dei diversi interessi involti, concludendo nel senso della prevalenza degli interessi di natura pubblicistica (quali quello alla salute pubblica o all’esercizio del servizio pubblico scolastico) rispetto a quello individuale a non vaccinarsi.
Le argomentazioni proposte dal Tar si inseriscono nel solco tracciato dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo (Decisione dell’8 aprile 2021, Caso di Vavřička and Others v. the Czech Republic, commentata sul nostro sito da Maria Santina Panarella, "Corte Europea dei diritti dell’Uomo: i vaccini obbligatori possono essere considerati necessari in una società democratica"), che ha defiito come “Necessary in a democratic society” le misure nazionali, adottate dalla Repubblica Ceca, prevedenti l’obbligatorietà di vaccini.
Peraltro, e come pure rileva il Tar, il diritto a non sottoporsi a vaccino è garantito dalla legge attraverso la possibilità di ottenere il green pass tramite la presentazione di un tampone, molecolare o antigenico, che attesti la negatività al Sars-Cov 2.
Dal momento in cui l’ottenimento del green pass tramite l’esecuzione del tampone, in alternativa al vaccino, è previsto, nell’impianto delineato dal legislatore, ad esclusiva tutela della scelta del docente a non vaccinarsi, il Tribunale ritiene ragionevole che “il costo del tampone venga a gravare sul docente che voglia beneficiare di tale alternativa”.
Calando tali principi sul piano del rapporto di lavoro del personale scolastico, alla violazione dell’obbligo di presentare il green pass per l’esercizio di attività in ambito scolastico, previsto dal art. 9 ter, co. 1, D.L. 52/2021, consegue automaticamente la sospensione del docente senza green pass, dal lavoro e dalla retribuzione, sancita dall’art. 9 ter, co. 2, sopra trascritto.
Tale conclusione, anche a prescindere da una espressa previsione normativa in tal senso, è condivisa da un orientamento giurisprudenziale che si sta anadando consolidando, e che ritiene legittima la sospensione del lavoratore non vaccinato anche ove non sia previsto l’obbligo di vaccinarsi ovvero di presentare il green pass, in caso di attività lavorative a contatto col pubblico.
Così, di recente, Il Tribunale di Roma, con ordinanza del 28 luglio 2021 (per un commento del provvedimento si richiama il nostro articolo “Legittima la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione del lavoratore che non si è sottoposto a vaccino anti Covid 19”) ha dichiarato la legittimità sospensione dal lavoro e dalla retribuzione del dipendente di un villaggio, che non si era sttoposto al vaccino anti Covid 19, e pertanto ritenuto, dal medico comptetente, inidoneo alle mansioni espletate, a tutela della salute del lavoratore e del pubblico potenzialmente a contatto con il medesimo.
Nello stesso senso, si erano espressi il Tribunale di Verona, ord. 24 maggio 2021 e il Tribunale di Modena, ord. 19 maggio 2021, che hanno rigettato le domande, proposte in via d'urgenza, da operatri sociosanitari operanti presso RSA, collocati in aspettativa non retribuita in ragione del rifiuto di sottoporsi al vaccino anti Covid 19. Ed ancora il Tribunale di Belluno, ord. del 19 marzo 2021, commentata sul nostro sito da Santina Panarella nel contributo “Se l’operatore socio-sanitario si rifiuta di vaccinarsi contro il Covid – 19, la sua collocazione in ferie forzate è legittima”. In quel caso, era stata reputata legittima la decisione di una struttura sanitaria che aveva posto in ferie forzate alcuni operatori “no vax”.
In conclusione, la previsione dell’obbligo di presentare il green pass in capo al personale scolastico risponde perfettamente alla ratio di tutela della salute pubblica, prevalente sul diritto a non vaccinarsi. La sospensione del docente senza green pass costituisce una conseguenza ineludibile, sia a tutela della salute pubblica, sia in ragione del venire meno della sinallagmaticità del rapporto.
Allo stato, la disciplina legislativa (art. 9 ter D.L. 52/2021) individua nei “dirigenti scolastici e i responsabili dei servizi educativi dell'infanzia nonché delle scuole paritarie e delle università” i soggetti tenuti a verificare il possesso della certificazione verde.
Quanto alle modalità di trattamento dei dati emergenti dalla certificazione, in attesa dell’emanazione del DPCM, da adottare ai sensi dell’art. 9, co. 10, del citato decreto legge n. 52/2021, non potrà che aversi riguardo alla normativa, europea e nazionale, in materia di trattamento dei dati personali.
I due decreti in commento escludono possa individuarsi nelle disposizioni che prevedono l’obbligo di esibizione del certificato verde la violazione della normativa in materia trattamento dei dati personali, nella misura in cui il personale deputato al cotrollo “abbia riportato fedelmente l’esito degli stessi al Dirigente scolastico”.
Nello stesso senso è legittima, secondo il Tar, la previsione dell’obbligo in capo al lavoratore di informare il datore di lavoro circa contatti stretti con persone positive o presenza di sintomatologia da Covid-19, trattandosi di obblogo “essenziale per individuare e circoscrivere tempestivamente situazioni di potenziale contagio al fine di assicurare il regolare svolgimento della didattica in presenza”.
Il Tribunale di Roma, con ordinanza del 28 luglio 2021 ha ritenuto legittima la sospensione del dipendente che non si è sottoposto al vaccino anti Covid 19, sino alla cessazione delle limitazioni imposte dal medico competente, a tutela della salute del lavoratore e del pubblico potenzialmente a contatto con il medesimo.
A quanto è dato apprendere dalla motivazione, il datore di lavoro aveva comunicato la sospensione dall’attività lavorativa ad una dipendente, addetta ad un villaggio turistico, a seguito del giudizio di idoneità con limitazioni (consistenti nel non poter entrare “in contatto con i residenti del villaggio”), espresso dal medico competente, in assenza di posizioni lavorative confacenti alla professionalità della ricorrente.
La lavoratrice ha impugnato il provvedimento, sostenendo di non essere soggetta ad obbligo vaccinale e che la sospensione avrebbe costituito un (illegittimo) provvedimento disciplinare conseguente al rifiuto della dipendente di sottoporsi al vaccino.
Il Tribunale di Roma ha escluso, innanzi tutto, che il provvedimento di sospensione disposto dal datore di lavoro integrasse una sanzione disciplinare, essendo invece connesso alla “parziale inidoneità alle mansioni della lavoratrice” espressa dal medico competente. Ha quindi concluso nel senso della legittimità, ed anzi doverosità, della sospensione del dipendente che non si è sottoposto al vaccino anti Covid 19, a tutela della salute e sicurezza dei lavoratori e dei terzi, di cui il datore è garante, ai sensi dell’art. 2087 c.c. e del D.Lg.s 81/2008. Il Giudice capitolino ha poi ritenuto legittima la sospensione del pagamento della retribuzione, essendo venuta meno la sinallagmaticità del rapporto, in assenza della prestazione lavorativa.
L’ordinanza in commento costituisce un ulteriore tassello nel dibattito giurisprudenziale circa le conseguenze sul rapporto di lavoro del rifiuto di sottoporsi al vaccino anti Covid, anche in assenza di disposizioni legislative che lo impongano.
Nel caso deciso dal Tribunale di Roma, infatti, la lavoratrice non era sottoposta all’obbligo vaccinale (invece previsto per gli operatori sanitari dall’art. 4, D.L. n. 44/2021: v. sul punto il contributo di Maria Santina Panarella, "Obbligo vaccinale covid per operatori sanitari ed esercenti professioni sanitarie: (per) ora la sospensione e il demansionamento dei no vax sono legge") né alla presentazione del green pass per l’accesso ai luoghi di lavoro.
La giurisprudenza che per prima ha affrontato la questione, con riguardo in particolare agli operatori sanitari, ha individuato nell’art. 2087 c.c. un obbligo in capo al datore di imporre al lavoratore la vaccinazione anti Covid, motivando sulla base necessità di tutelare l'interesse prevalente dei soggetti assistiti.
Il primo provvedimento risale all’ordinanza del Tribunale di Belluno del 19 marzo 2021, commentata sul nostro sito da Maria Santina Panarella nel contributo “Se l’operatore socio-sanitario si rifiuta di vaccinarsi contro il Covid – 19, la sua collocazione in ferie forzate è legittima”. In quel caso, era stata reputata legittima la decisione di una struttura sanitaria che aveva posto in ferie forzate alcuni operatori “no vax”.
Nello stesso senso si sono, più di recente, espressi il Tribunale di Verona, ord. 24 maggio 2021 e il Tribunale di Modena, ord. 19 maggio 2021, che hanno rigettato le domande, proposte in via d'urgenza, da operatri sociosanitari operanti presso RSA, collocati in aspettativa non retribuita in ragione del rifiuto di sottoporsi al vaccino anti Covid 19.
Il Tribunale di Roma, facendo leva sulle limitazioni imposte dal medico competente, si pone in una diversa prospettiva, che guarda all’incidenza della mancata copertura vaccinale sulla causa del contratto. In questa prospettiva, l’“ingiustificato contegno astensivo” del lavoratore, in quanto tale da porre in pericolo la salute propria e dell’utenza, determina l’inesigibilità della prestazione lavorativa, certificata dalle limitazioni fissate dal medico competente.
Occorre muovere dal referente normativo, e dunque dal D.Lgs. 81/08.
In particolare, ai sensi dell’art. 15, lett. m), rientra nelle misure generali di tutela della salute sui luoghi di lavoro, a carico del datore, “l'allontanamento del lavoratore dall'esposizione al rischio per motivi sanitari inerenti la sua persona e l'adibizione, ove possibile, ad altra mansione”. L’art. 20, poi, impone ad ogni lavoratore di“prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni”.
Sembrerebbe dunque potersi trarre il corollario, colto dal Tribunale di Modena, ord. 19 maggio 2021, che “la protezione e salvaguardia della salute dell’utenza rientra nell’oggetto della prestazione esigibile” in quanto la “tutela della salute dell’utenza penetra nella struttura del contratto tanto da qualificare la prestazione lavorativa”.
Sviluppando questi rilievi il datore sarebbe tenuto a sospendere il lavoratore no vax ove questi svolga attività a contatto con il pubblico. Questa considerazione sarebbe invero difficilmente conciliabile con l’apparato normativo a tutela della privacy del lavoratore, non essendo presente, allo stato, nel nostro ordinamento una disposizione di legge che imponga al dipendente di fornire informazioni circa il proprio stato vaccinale.
Sul punto, è intervenuto anche il Garante della Privacy, nell’ambito del recente Provvedimento del 22 luglio 2021 (avente ad oggetto l’ordinanza n. 75 del 7 luglio 2021 della Regione Siciliana, ove è stato tra l’altro previsto, all’art. 3, che tutti i dipendenti a contatto diretto con l’utenza siano “formalmente invitati” a ricevere la vaccinazione e, in assenza di questa, assegnati ad altra mansione).
L’Autorità ha premesso che i trattamenti di dati personali relativi allo stato vaccinale dei dipendenti pubblici e degli enti regionali, determinando limitazioni dei diritti e delle libertà individuali, possono essere introdotte solo da una norma nazionale di rango primario, previo parere dell’Autorità.
Ha quindi chiarito che il trattamento dei dati personali anche relativi alla vaccinazione dei dipendenti, può certamente essere effettuato dal solo del medico competente (art. 9, parr. 2, lett. h), e 3 del Regolamento GDPR; cfr. anche art. 2-sexies, comma 2, lett. u), del Codice in materia di Protezione dei Dati Personali), stante gli specifici limiti per il trattamento di tali dati da parte del datore di lavoro, ma ciò “deve comunque avvenire nei limiti e alle condizioni stabilite dalla richiamata disciplina di settore in materia di sicurezza sul lavoro”.
Le conclusioni cui è pervenuto il Tribunale di Roma, secondo cui è legittima la sospensione del dipendente che non si è sottoposto al vaccino anti Covid 19, sono perfettamente compatibili con questo quadro normativo, contemperando ragionevolmente le esigenze di tutela della salute con il diritto alla riservatezza del lavoratore.
Allo stato dell’arte, ed in attesa di un intervento legislativo che disciplini l’obbligo vaccinale, si può ritenere che, da un lato, la scelta del dipendente di non sottoporsi al vaccino, in assenza di un obbligo di fonte legislativa, non può legittimare l’adozione di provvedimenti disciplinari, dall’altro, il contegno del lavoratore che decida di non vaccinarsi, incidendo sulla oggettiva idoneità a svolgere determinate mansioni, impone, per il tramite delle prescrizioni del medico competente, la sospensione del lavoratore (ove non sia possibile l’assegnazione a mansioni compatibili), a tutela della salute del lavoratore stesso e di tutti i soggetti con cui può venire potenzialmente in contatto, come visto oggetto di uno specifico dovere di sicurezza in capo allo stesso prestatore di lavoro.