La responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 c.c. ha natura oggettiva e può essere esclusa o dalla prova del caso fortuito, oppure dalla dimostrazione della rilevanza causale, esclusiva o concorrente, alla produzione del danno della condotta del danneggiato o di un terzo.

Questo il principio affermato da Cass., 3 maggio 2024, n. 11942.

La vicenda trae origine dalla domanda di risarcimento dei danni proposta da un runner nei confronti del comune in relazione a una caduta causata da una trave posizionata sul marciapiedi.

La domanda veniva rigettata in entrambi i gradi di merito per carenza di legittimazione passiva della parte convenuta (trattandosi di strada privata) e, in ogni caso, per insussistenza della responsabilità da custodia, venendo in rilievo una ipotesi di caso fortuito.

Quanto alla legittimazione passiva, l’ordinanza in commento richiama il principio in forza del quale “In relazione alle strade vicinali sussiste la responsabilità per custodia del Comune a prescindere dal fatto che esse siano di proprietà privata, purché esse siano inserite ... tra le strade adibite a pubblico transito …  È, pertanto, l'uso pubblico a giustificare, per evidenti ragioni di ordine e sicurezza collettiva, la soggezione delle aree alle norme del codice della strada e la legittimazione passiva del Comune, fondata sugli obblighi di custodia correlati al controllo del territorio e alla tutela della sicurezza ed incolumità dei fruitori delle strade di uso pubblico, in relazione agli eventuali danni riportati dagli utenti della strada” (in questi termini, Cass. civ., Sez. III, Ordinanza, 29/03/2023, n. 8879).

Su queste premesse, essendo l’incidente occorso su strada vicinale, aperta al pubblico, la Corte di legittimità ritiene sussistere l’obbligo di custodia in capo al Comune, la cui legittimazione passiva concorre con quella del proprietario della strada.

Ciò premesso la Corte ha, in ogni caso, confermato la statuizione di rigetto della domanda attorea, in ragione della elisione del nesso causale tra la cosa in custodia e il sinistro per effetto della condotta negligente del danneggiato.

La Corte prende le mosse dall’insegnamento, affermatosi a partire dall’ordinanza del 1 febbraio 2018, n. 2482, secondo cui “In tema di responsabilità civile per danni da cose in custodia, la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull'evento dannoso, in applicazione - anche ufficiosa - dell'art. 1227, comma 1, c.c., richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall'art. 2 Cost., sicché, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un'evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l'esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro”.

Ancor più recentemente la giurisprudenza di legittimità ha ribadito che “la responsabilità ex art. 2051 c.c. ha natura oggettiva - in quanto si fonda unicamente sulla dimostrazione del nesso causale tra la cosa in custodia e il danno, non già su una presunzione di colpa del custode - e può essere esclusa: a) dalla prova del caso fortuito (che appartiene alla categoria dei fatti giuridici), senza intermediazione di alcun elemento soggettivo, oppure b) dalla dimostrazione della rilevanza causale, esclusiva o concorrente, alla produzione del danno della condotta del danneggiato o di un terzo (rientranti nella categoria dei fatti umani), caratterizzate, rispettivamente, la prima dalla colpa e x art. 1227 c.c. (bastando la colpa del danneggiato: Cass. n. 21675/2023; Cass. n. 2376/2024) o, indefettibilmente, la seconda dalla oggettiva imprevedibilità e imprevenibilità rispetto all'evento pregiudizievole” (in questi Cass., 27 aprile 2023, n. 11152, nel solco di quanto affermato dalle Sezioni Unite con sentenza n. 20943 del 2022).   

Nel solco di tali principi, si è posta poi l’ordinanza n. 35966 del 27 dicembre 2023 (pubblicata sul nostro sito con commento di Maria Santina Panarella, La condotta del danneggiato eccezionalmente incauta può costituire caso fortuito?), la quale ha ritenuto che la vittima di una rovinosa caduta, nel decidere di utilizzare la passerella al fine di accedere alla spiaggia, sebbene vi fosse un accesso all’arenile alternativo e più sicuro, avrebbe posto in essere una condotta assolutamente incauta che, per quanto in astratto prevedibile, integrerebbe gli estremi del caso fortuito.

Ancora la Cassazione, con ordinanza n. 26209/23 del 8 settembre 2023 (v. il commento sul nostro sito, Il comune non risarcisce il guidatore imprudente, ha escluso la responsabilità risarcitoria del Comune, in relazione alla condotta negligente tenuta dal guidatore, come tale imprevedibile dal custode (il Comune), e configurabile quale “caso fortuito”, ai sensi degli artt. 1227 e 2051 c.c. Secondo la Cassazione, la violazione delle norme di sicurezza dettate per regolamentare le autorizzazioni amministrative, sebbene possa essere indice di una possibile colpa soggettivamente imputabile al gestore o al custode, non giustifica comunque la condotta incauta “che sia giudicata tale in modo decisivo e assorbente ai fini ricostruttivi del nesso oggettivo”.

Sviluppando questi rilievi, Cass., ordinanza 20 luglio 2023, n. 21675 (sul nostro sito con commento di Maria Santina Panarella, Responsabilità oggettiva per danno da cose in custodia e doveri di cautela: nessun risarcimento per chi cammina a piedi nudi a bordo piscina e cade), ha escluso il risarcimento per l’utente della piscina caduto mentre camminava a piedi nudi a bordo della piscina stessa.

L'ordinanza in commento ha quindi ritenuto correttamente applicati tali principi dalla corte territoriale, rinvenendo una causa esclusiva del sinistro, idonea ad elidere il nesso causale tra la cosa ed il danno, il comportamento imprudente del danneggiato che, pur conoscendo bene il luogo del sinistro (per abitare nei pressi e per essere solito recarsi nella via dove è avvenuta la caduta), ha scelto, per praticare il jogging, proprio una strada interessata dai lavori di un cantiere: sostanzialmente accettando il rischio costituito dalle tutt'altro che imprevedibili condizioni accidentate del relativo terreno.

La donazione indiretta dell'immobile non è configurabile quando il donante paghi soltanto una parte del prezzo del bene, giacché la corresponsione del denaro costituisce una diversa modalità per attuare l'identico risultato giuridico-economico dell'attribuzione liberale dell'immobile esclusivamente nell'ipotesi in cui ne sostenga l'intero costo.

Questo il principio affermato dalla Cassazione con sentenza n. 16329 del 12 giugno 2024.

La Corte territoriale aveva ritenuto provata la donazione indiretta della quota pari ad un quarto di un appartamento in favore della coerede, sulla base delle prove raccolte in giudizio, e, ai fini della collazione, aveva ricompreso nella massa ereditaria la quota di un quarto dell’immobile.

La sentenza in commento muove dall’insegnamento risalente alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 9282 del 1992, in forza del quale “Nell'ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il disponente medesimo intenda in tal modo beneficiare, con la sua adesione, la compravendita costituisce strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario e, quindi, integra donazione indiretta del bene stesso, non del denaro. Pertanto, in caso di collazione, secondo le previsioni dell'art. 737 c.c., il conferimento deve avere ad oggetto l'immobile, non il denaro impiegato per il suo acquisto”.

In epoca successiva all’intervento delle Sezioni unite si sono andati formando due orientamenti contrapposti, con riguardo alla configurabilità di una donazione indiretta dell’immobile in caso di corresponsione da parte del donante di una parte del prezzo.

Secondo un primo arresto “La donazione indiretta dell'immobile non è configurabile quando il donante paghi soltanto una parte del prezzo del bene, giacché la corresponsione del denaro costituisce una diversa modalità per attuare l'identico risultato giuridico-economico dell'attribuzione liberale dell'immobile esclusivamente nell'ipotesi in cui ne sostenga l'intero costo” (Cass. civile sez. II, 31/01/2014, n. 2149).

In senso parzialmente difforme, Cass. civ. sez. II, 17/04/2019, n. 10759 - in relazione ad un caso che vedeva l'acquisto dell'appartamento da parte della asserita donataria solo per la quota del 50% tramite provvista fornita dal donante – ha concluso che l'oggetto della donazione indiretta fosse in quel caso integrato dal, meccanismo della corresponsione da parte del donante delle somme necessarie a soddisfare l'obbligo di pagamento del corrispettivo della vendita effettivamente compiuta da parte del donatario”. In tale pronuncia la Corte aveva quindi ritenuto inapplicabile il principio affermato in precedenza da Cass. n. 2149 del 2014, “poiché nella fattispecie la donazione concerneva solo il 50% dell'immobile e cioè la quota che sarebbe dovuta pervenire alla ricorrente”. Secondo la pronuncia da ultimo riportata “la liberalità realizzata con la corresponsione delle somme necessarie a pagare il prezzo da parte del donante, non necessariamente (deve) tradursi nella corresponsione dell'intero prezzo, ma anche di una parte di esso, laddove sempre sia dimostrato lo specifico collegamento tra dazione e successivo impiego delle somme, e che laddove queste ultime non siano in grado di coprire per l'intero l'obbligazione gravante sul compratore, l'oggetto della liberalità debba essere identificato, analogamente a quanto affermato in tema di vendita mista a donazione, nella percentuale di proprietà del bene acquistato corrispondente alla quota parte di prezzo soddisfatta con la provvista fornita dal donante”.

La sentenza in commento, condividendo il primo dei due orientamenti – invero senza riportare il dibattito animatosi nella giurisprudenza di legittimità - ripropone la distinzione, ai fini della collazione, tra erogazione dell’intero costo del bene immobile e corresponsione di una parte di esso.

La conclusione è, dunque, nel senso che, solo nel caso in cui l’intero costo del bene sia stato sostenuto dal donante è configurabile una donazione indiretta, con conseguente imputazione, ai fini della collazione, della corrispondente quota dell’immobile.

La sentenza in esame, quindi, esclude che il caso in controversia possa ricondursi alla fattispecie della donazione indiretta di immobile, posto che solo una parte del prezzo era stata corrisposta dal de cuius.

La presunzione di nullità del licenziamento della lavoratrice per causa di matrimonio, prevista dall'art. 35 D.Lgs. n. 198/2006, non è esclusa dalla pregressa convivenza more uxorio.

Questo il principio affermato dalla Cassazione nella recente ordinanza 22 maggio 2024, n. 14301.

La vicenda processuale trae origine dalla domanda di nullità del licenziamento intimato, per giustificato motivo oggettivo, nel periodo tra la richiesta delle pubblicazioni di matrimonio e un anno dopo la celebrazione del matrimonio. La domanda era stata accolta dai giudici del merito, che avevano rigettato l’eccezione datoriale secondo cui la presunzione di discriminatorietà non opererebbe nel caso in cui il matrimonio sia preceduto dalla convivenza more uxorio, in quanto situazione equiparabile allo stesso matrimonio.

La norma di riferimento è l’art. 35, co. 3, D.Lgs. n. 198/2006, in forza del quale “si presume che il licenziamento della dipendente nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa, sia stato disposto per causa di matrimonio”.

Le uniche eccezioni alla regola sono individuate dal comma 5 nelle seguenti circostanze:

“a) colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro;

b) cessazione dell'attività dell'azienda cui essa è addetta;

c) ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine”.

L’ordinanza in esame muove dalla considerazione che “la limitazione alle sole lavoratrici della nullità prevista dall'art. 35 del D.Lgs. n. 198 del 2006 non ha natura discriminatoria, in quanto la diversità di trattamento non trova giustificazione nel genere del soggetto che presta l'attività lavorativa, ma è coerente con la realtà sociale, che ha reso necessarie misure legislative volte a garantire alla donna la possibilità di coniugare il diritto al lavoro con la propria vita coniugale e familiare”.

L’adozione di misure legislative intese a consentire alla donna di poter coniugare il legittimo diritto al lavoro con la propria vita coniugale e familiare trova giustificazione in una pluralità di principi costituzionali, individuati dalla Corte:

  • nell’art. 2 Cost., posto a garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo, fra i quali la libertà di contrarre matrimonio;
  • nell’art. 3, comma 2, Cost., che promuove la realizzazione del principio di uguaglianza sostanziale attraverso la rimozione di ogni ostacolo, anche di fatto, al pieno sviluppo della persona umana;
  • nell’art. 31 Cost., avente ad oggetto l’agevolazione, quale compito della Repubblica, di formazione della famiglia attraverso l'eliminazione di ogni ostacolo, anche indiretto;
  • nell’art. 37 Cost., che pone il principio fissazione di condizioni di lavoro per la donna compatibili con l'adempimento della sua funzione familiare, sull'evidente presupposto della sua libertà di diventare sposa e madre;
  • nell’art. 4 Cost., che proclama il diritto al lavoro tra i principi fondamentali della Repubblica.

 Fatta tale premessa, l’ordinanza in commento sottolinea – aderendo alle considerazioni della Corte di merito – che, nella fattispecie, ciò che rileva “non è l'intento - discriminatorio o meno - del datore di lavoro, bensì il dato oggettivo che il licenziamento è avvenuto nel periodo di un anno dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio cui è seguita la celebrazione dello stesso, dato oggettivo che non è contestato”.

In presenza di tali condizioni opera la presunzione legale fissata dall’art. 35 cit. che il datore di lavoro può superare dimostrando la ricorrenza di una delle tre ipotesi previste dal comma 5 della predetta disposizione, sopra trascritto.

Non rileva quale prova liberatoria l’eventuale buona fede del datore di lavoro ovvero l’assenza dell’intento di discriminare la lavoratrice in quanto nubenda o contraente matrimonio. Sviluppando questi rilievi la Corte disattende l’argomento, proposto dalla parte ricorrente, secondo il quale, in caso di pregressa convivenza more uxorio della lavoratrice con la medesima persona che poi ne diventi coniuge, l'interesse tutelato dalla norma non sarebbe in concreto violato. Conclude, infatti, la Corte che la trama normativa delineata dall’art. 35 D.Lgs. n. 198 del 2006  “una volta che il licenziamento sia intervenuto nel periodo ivi previsto, non permette indagini volte a controllare se gli interessi tutelati non sarebbero stati in concreto vulnerati nel senso sostenuto dalla società ricorrente per cassazione”.

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