In attuazione della riforma 1.9.1 del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) italiano, approvato con decisione del Consiglio ECOFIN del 13 luglio 2021, come modificato con decisione del Consiglio ECOFIN dell'8 dicembre 2023, è stato emanato il Decreto Legge 7 maggio 2024, n. 60, che definisce “il quadro normativo nazionale finalizzato ad accelerare l'attuazione e ad incrementare l'efficienza della politica di coesione europea” nei seguenti settori strategici: risorse idriche; infrastrutture per il rischio idrogeologico e la protezione dell'ambiente; rifiuti; trasporti e mobilità sostenibile; energia; sostegno allo sviluppo e all'attrattività delle imprese, anche per le transizioni digitale e verde.

In particolare, e per quel che attiene alla materia lavoristica, nell’ambito del provvedimento in esame sono previste (artt. 16 – 20) misure incentivanti l’autoimpiego nell’ambito di “di attività di lavoro autonomo, imprenditoriali e libero-professionali” in favore di giovani, donne, inoccupati e disoccupati, nonché nei settori strategici per lo sviluppo di nuove tecnologie e la transizione al digitale ed ecologica (art. 21).

Il licenziamento del lavoratore portatore di handicap per superamento del periodo di comporto è discriminatorio qualora il datore di lavoro, che conosca la situazione di invalidità del lavoratore, oppure avrebbe potuto conoscerla con diligenza, non si sia attivato, in collaborazione col lavoratore, per accertare la riconducibilità delle assenze all’invalidità, adottando in caso positivo accomodamenti ragionevoli per evitare il licenziamento.

Questo il principio affermato dalla Cassazione, con sentenza n. 14316 del 22 maggio 2024.

La vicenda decisa dalla Cassazione trae origine dalla impugnativa del licenziamento da parte del lavoratore portatore di handicap in quanto, tra l’altro, discriminatorio ai sensi dell'art. 2 D.Lgs. n. 216/2003 perché tutte le assenze contestate risultavano causalmente riconducibili alla sua condizione di soggetto portatore di handicap e, comunque, in quanto disposto in violazione dell'obbligo, gravante sul datore di lavoro, di adottare tutte le adeguate misure volte a prevenire ed a evitare le conseguenze negative derivanti da patologie gravemente invalidanti del dipendente.

La Corte territoriale aveva rigettato la domanda sul presupposto che la discriminazione, quantunque indiretta, non opera oggettivamene ma presuppone la conoscenza della condizione di handicap da parte del datore di lavoro. Se, infatti, non vi è un onere del dipendente di comunicare la riconducibilità delle assenze alla malattia invalidante, non sarebbe comunque configurabile un obbligo per il datore di lavoro di controllare il nesso causale tra le assenze e la disabilità del lavoratore. E, nella fattispecie, non è stato dimostrato che la società fosse a conoscenza dello stato di handicap.

La sentenza in commento si discosta da tale conclusione, muovendo dall’assunto che, venendo in rilievo, nel caso di discriminazione indiretta, “l'effetto discriminatorio e non la condotta, come invece avviene per la discriminazione diretta”, esula dal tema “ogni problematica sul requisito della colpevolezza quale elemento costitutivo della responsabilità da comportamento discriminatorio”.

Osserva, altresì, la Corte di Cassazione che, pur operando la discriminatorietà su un piano oggettivo, “Il presupposto della conoscenza dello stato di disabilità o la possibilità di conoscerlo secondo l'ordinaria diligenza incide, evidentemente, sulla possibilità che il datore di lavoro possa fornire la prova liberatoria circa la ragionevolezza degli accomodamenti da adottare e, quindi, rappresenta un momento indispensabile nella valutazione della fattispecie”. In altre parole, la conoscenza o conoscibilità dello stato oggettivo alla base dell’effetto discriminatorio costituisce elemento rilevante ai fini della operatività, o meno, di una esimente per il datore di lavoro (negli stessi termini, Cassazione civile , sez. lav. , 31/03/2023 , n. 9095, la quale ha ritenuto integrante una discriminazione indiretta “l'applicazione dell'ordinario periodo di comporto al lavoratore disabile, perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio, apparentemente neutro, del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio”).

Fatte queste premesse, la sentenza in commento rileva che, in tutti i casi in cui il datore di lavoro sia a conoscenza dello stato di handicap del dipendente, ovvero sia in grado di averne consapevolezza, sorge a suo carico, prima di adottare un provvedimento di licenziamento per superamento del periodo di comporto, “un onere di acquisire informazioni - cui non può corrispondere un comportamento ostruzionistico del lavoratore - circa la eventualità che le assenze siano connesse ad uno stato di disabilità, per valutare, quindi, gli elementi utili al fine di individuare eventuali accorgimenti ragionevoli onde evitare il recesso dal rapporto”.

Di tale onere la Corte rinviene conferma anche nell’ambito delle fonti normative internazionali e, in particolare:

  • nell'art. 2 della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità secondo cui è una forma di discriminazione, "il rifiuto di accomodamento ragionevole" e nel Commento generale n. 6, adottato nel 2018, dal Comitato per i diritti delle persone con disabilità (ONU), si afferma che: "è connaturato alla nozione di accomodamento ragionevole che l'obbligato entri in dialogo con l'individuo con disabilità";
  • nelle conclusioni rese dall'Avvocato Generale nella causa innanzi alla Corte di Giustizia C-270/16 Ruiz Conejero contro Ferroser Servicios Auxiliares SA e Ministerio Fiscal (CGUE sentenza 18 gennaio 2018), ove si afferma che il datore di lavoro “è tenuto a prendere provvedimenti appropriati per prevedere soluzioni ragionevoli ai sensi dell'articolo 5 della menzionata direttiva (...) qualora un lavoratore sia affetto da una disabilità e il suo datore di lavoro sia o dovrebbe ragionevolmente essere a conoscenza di tale disabilità”;
  • nell'art. 17 del D.Lgs. n. 62 del 3 maggio 2024, di attuazione della legge delega n. 227/21 - non applicabile alla fattispecie ma che riforma l'intera materia della disabilità -, il quale, nell'introdurre l'art. 5-bis alla legge n. 104 del 1992, stabilisce che, "La persona con disabilità (...) ha facoltà di richiedere, con apposita istanza scritta, (tra gli altri) ai soggetti privati l'adozione di un accomodamento ragionevole, anche formulando una proposta" e partecipando "al procedimento dell'individuazione dell'accomodamento ragionevole"

La sentenza conclude dunque che “'interlocuzione ed il confronto tra le parti, che si pongono su di un piano logico quale presupposto per adottare gli accomodamenti ragionevoli, rappresentano, pertanto, un fase ineludibile della fattispecie complessa del licenziamento del lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto, proprio "al fine di non sconfinare in forme di responsabilità oggettiva" e, "per verificare l'adempimento o meno dell'obbligo legislativamente imposto dal comma 3-bis", "occorre avere presente il contenuto del comportamento dovuto"; ciò perché ". esso si caratterizza non (solo) in negativo, per il divieto di comportamenti" discriminatori, "quanto piuttosto per il suo profilo di azione, in positivo, volto alla ricerca di misure organizzative ragionevoli idonee a consentire lo svolgimento di un'attività lavorativa" al disabile”. Quindi, “il datore è chiamato a provare, (...), di aver compiuto "uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata, che scongiuri il licenziamento, avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto"”.

Applicando tali principi al caso di specie, la sentenza in commento rileva che il datore di lavoro era a conoscenza di un “serio infortunio sul lavoro patito dal lavoratore” nonché di un “andamento delle assenze per malattia sicuramente anomalo e sintomatico di una patologia non ordinaria” per cui avrebbe dovuto coinvolgere il lavoratore “ai fini di acquisire i necessari chiarimenti in ordine alle assenze effettuate non essendo sufficiente, per ritenere giustificata l'omessa conoscenza della disabilità, che il dipendente non avesse segnalato che le patologie che avevano dato luogo alle sue assenze fossero collegate al suo handicap”.

In tema di mutuo bancario, a tasso fisso, con rimborso rateale del prestito regolato da un piano di ammortamento «alla francese», “non è causa di nullità parziale del contratto la mancata indicazione della modalità di ammortamento e del regime di capitalizzazione «composto» degli interessi debitori, per indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto del contratto né per violazione della normativa in tema di trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti tra gli istituti di credito e i clienti”.

Questo il principio affermato dalle Sezioni Unite, con sentenza del 29 maggio 2024, n. 15130, a seguito di rinvio pregiudiziale disposto, ai sensi dell’art. 363 bis c.p.c., dal Tribunale di Salerno (decreto del 19 luglio 2023).

La questione di diritto sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite è se, in presenza di un mutuo a tasso fisso con piano di ammortamento c.d. «alla francese» allegato al contratto, il contratto debba contenere, a pena di nullità, anche l’esplicitazione del regime di ammortamento e della eventuale maggiore onerosità del suddetto piano rispetto ad altri piani di ammortamento. In particolare, le Sezioni Unite sono state chiamate a valutare se, in mancanza di detta indicazione, il contratto sia affetto da nullità parziale per indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto del contratto (art. 1346 c.c.) e/o per violazione della trasparenza delle condizioni contrattuali (art. 117 T.u.b.).

La Corte – risolto positivamente il vaglio di ammissibilità del rinvio pregiudiziale – muove dalla illustrazione delle caratteristiche del piano di ammortamento «alla francese», in forza del quale “il mutuatario si obbliga a pagare rate di importo sempre identico composte dagli interessi, calcolati sin da subito sull’intero capitale erogato e via via sul capitale residuo, e da frazioni di capitale quantificate in misura pari alla differenza tra l’importo concordato della rata costante e l’ammontare della quota interessi”. Pertanto, il “rimborso delle frazioni di capitale conglobate nella rata in scadenza produce l’abbattimento del capitale (debito) residuo e la riduzione del montante sul quale sono calcolati gli interessi (maturati nell’anno), determinando così la progressiva diminuzione della quota (della rata successiva) ascrivibile agli interessi e il corrispondente aumento della quota ascrivibile a capitale e così via”.

Il piano così conformato prevede, dunque, il “pagamento del debito a «rate costanti» comprensive di una quota capitale (crescente) e di una quota interessi (decrescente)”.

L’ordinanza di rinvio ha evidenziato che, nel regime di capitalizzazione “composto”, “l’interesse prodotto in ogni periodo si somma al capitale e produce a sua volta interessi” (pag. 8), implicando, conseguentemente, “una maggiore onerosità del costo del denaro preso a prestito… in quanto la produzione di interessi su interessi costituisce, di per sé, un maggior costo” (pag. 11).

Su queste premesse, il Tribunale di Salerno ha posto in dubbio la determinatezza dell’oggetto ex art. 1346 c.c. e la trasparenza del contratto ex art. 117 t.u.b., nel caso di mancata esplicitazione del regime di ammortamento.

La sentenza in commento, prima di delibare le questioni poste dall’ordinanza di rinvio, evidenzia, innanzi tutto, come debba escludersi che l’ammortamento «alla francese» produca un effetto anatocistico, rilevando, nel solco delle osservazioni proposte dalla Procura Generale, che “l’ammortamento alla francese prevede che l’obbligazione per interessi sia calcolata sin da subito sull’intero capitale erogato benché quest’ultimo non sia ancora integralmente esigibile”, ma allo stesso tempo prevede che “la quota capitale è incrementata con gli interessi generati, però, non (necessariamente) su altri interessi ma sul capitale (debito) residuo, né destinati (necessariamente) a generare a loro volta (diventando parte della somma fruttifera di) ulteriori interessi nel periodo successivo” (v., negli stessi termini, Cass. n. 13144/2023).

Sotto altro profilo la Corte – nello scrutinare la validità dell’ammortamento «alla francese» sotto il profilo della meritevolezza dell’interesse ex art. 1322, co. 2, c.c. – conclude che è legittimo “che gli interessi diventino convenzionalmente esigibili prima che diventi esigibile (in tutto o in parte) il capitale, potendo le parti convenzionalmente stabilire che gli interessi si versino nel corso del rapporto prima del capitale o in un’unica soluzione alla fine del rapporto contestualmente al rimborso del capitale (artt. 1815 e 1820 c.c.)”.   

Da tali prospettazioni di carattere generale, discendono le conclusioni cui pervengono le Sezioni Unite in relazione alle questioni sottoposte al loro vaglio.

Con riguardo alla questione della determinabilità dell’oggetto del contratto, la sentenza in commento esclude che l’omessa indicazione del regime di capitalizzazione «composto» degli interessi e della modalità di ammortamento «alla francese» comporti, in sé, la indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto e, di conseguenza, la nullità (parziale) del contratto di mutuo bancario, ai sensi degli artt. 1346 e 1418, comma 2, c.c., allorché “il contratto di mutuo contenga le indicazioni proprie del tipo legale (art. 1813 ss. c.c.), cioè la chiara e inequivoca indicazione dell’importo erogato, della durata del prestito, della periodicità del rimborso e del tasso di interesse predeterminato”.

La Corte giunge a tale conclusione sul presupposto che “mancanza di un fenomeno di produzione di interessi su interessi, la tipologia di ammortamento adottato non incide di per sé sul tasso annuo (TAN) che dev’essere (ed è stato) esplicitato nel contratto né sul tasso annuo effettivo globale (TAEG) anch’esso esplicitato”.

Dunque, è da escludersi la nullità della clausola di determinazione del regime di capitalizzazione nella misura in cui – come nel caso che ha dato origine al rinvio pregiudiziale – sono indicate “il numero e la composizione delle rate costanti di rimborso con la ripartizione delle quote per capitale e per interessi”, essendo il mutuatario posto in condizioni di “ricavare agevolmente l’importo totale del rimborso con una semplice sommatoria”.

Sotto altro profilo, come anticipato, l’ordinanza di rinvio ha prospettato la mancanza di trasparenza delle condizioni contrattuali, ai sensi dell’art. 117, 4° co., t.u.b., in relazione alla maggior quota di interessi complessamente dovuti in presenza di ammortamento «alla francese» rispetto a quello «all’italiana», e dunque chiesto di verificare se tale effetto costituisca un prezzo ulteriore e occulto che rende il tasso d’interesse effettivo maggiore di quello nominale (TAN) e del TAEG dichiarati nel

contratto, di cui il cliente dovrebbe essere informato.

Sul punto, la Corte – ribadito che non è riscontrabile un effetto anatocistico – conclude che il piano di ammortamento «alla francese» “non si traduce in una maggiore voce di costo, prezzo o esborso da esplicitare nel contratto, non incidendo sul TAN e sul TAEG, ma costituisce il naturale effetto della scelta concordata di prevedere che il piano di rimborso si articoli nel pagamento di una rata costante (inizialmente calmierata) e non decrescente”. Pertanto, non essendo ravvisabile nella normativa primaria e secondaria l’obbligo a carico della banca di esplicitare il regime di ammortamento nel contratto, la Corte conclude che è assolto l’obbligo di trasparenza contrattuale mediante l’allegazione delpiano di ammortamento “in base al quale al cliente è assicurata la possibilità di verificare la rispondenza dell’offerta alle proprie esigenze e alla propria situazione finanziaria e di valutarne la convenienza confrontandola con altre offerte presenti eventualmente sul mercato”.

Le Sezioni Unite, dunque, escludono in maniera chiara, e probabilmente definitiva che l’indicazione, nel contratto di mutuo, del piano di ammortamento e del regime di capitalizzazione costituisca un requisito di validità. Allo stesso tempo, rimane aperto il dibattito, già sollecitato dai primi commentatori della sentenza in esame, circa la possibilità di fare oggetto di un obbligo di informazione a carico dell’istituto di credito l’esplicitazione del regime di ammortamento e della eventuale maggiore onerosità del suddetto piano rispetto ad altri piani di ammortamento.

La stessa Cassazione lascia aperto tale scenario, pur sottolineando che in tale ipotesi, la violazione del predetto obbligo (di comportamento) comporterebbe conseguenze “sul piano della responsabilità dell’istituto di credito e non della validità del contratto”, in ossequio al principio di non interferenza tra regole di validità e regole di comportamento, riaffermato dalle Sezioni Unite con le sentenze nn. 26724 – 26725 del 2007.

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