La Cassazione, con ordinanza del 29 marzo 2024, n. 8550, interviene ancora in materia di contratti di intermediazione finanziaria e obblighi di informazione a carico dell'intermediario, riaffermando principi, che ormai vanno consolidandosi, sulla forma degli ordini di investimento e riparto dell’onere probatorio.

La vicenda processuale origina dalla domanda, proposta dalla cliente a seguito di un investimento rivelatosi infruttuoso, di declaratoria di nullità, ovvero, in via subordinata, annullabilità o risoluzione per inadempimento, degli ordini di negoziazione di strumenti finanziari (nella specie, obbligazioni emesse dallo stato argentino) per carenza di forma scritta dei medesimi ordini ovvero in ragione della violazione da parte della Banca convenuta degli obblighi informativi, posti a suo carico dal D.Lgs. n. 58 del 1998.

 Il Tribunale di Firenze accoglieva la domanda di risoluzione per inadempimento dei singoli ordini, condannando la Banca alla restituzione del capitale investito. La Corte d’Appello riformava integralmente la sentenza di primo grado, escludendo l’inadempimento da parte della Banca agli obblighi informativi posti a suo carico nella prestazione dei servizi d’investimento, con particolare riguardo all’adeguatezza dell’operazione contestata. Proponeva ricorso per cassazione l’investitrice, censurando la sentenza di merito sotto diversi profili.

In particolare, parte ricorrente si è doluta dell’accoglimento da parte della Corte territoriale dell’eccezione della Banca circa l’intervenuta ratifica degli ordini di investimento da parte dell’investitrice, nonostante la relativa eccezione non fosse stata articolata dalla convenuta in primo grado.

L’ordinanza in commento ha dichiarato inammissibile il motivo perché non riferibile alla totalità delle rationes decidendi proposte dalla Corte d’Appello. Quest’ultima, infatti, aveva, in primo luogo, escluso la sussistenza di un onere di forma scritta ad substantiam con riguardo ai singoli ordini e sul punto nessuna censura è stata proposta.

Con riguardo all’estensibilità del requisito di forma scritta ai singolo ordini, la Corte di Cassazione – nel solco di un orientamento ormai consolidato – ribadisce che “risultano sottratti ad oneri formali anche i negozi eventualmente collegati agli ordini d'investimento, quali l'autorizzazione ad impartirli o il conferimento del relativo incarico ad un terzo, ovvero la ratifica postuma dell'operato di quest'ultimo, il cui compimento non deve necessariamente evincersi da un atto scritto, potendo risultare anche per facta concludentia e può quindi essere provato anche in via presuntiva”.

In questo senso, già in precedenza, è consolidato l’insegnamento secondo cui “Per contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento la forma scritta a pena di nullità si riferisce ai soli contratti quadro e non ai singoli ordini di investimento (o disinvestimento) che vengano poi impartiti dal cliente all'intermediario la cui validità non è invece soggetta a requisiti formali, salvo diversa previsione dello stesso contratto quadro” (Cass., 06/07/2020, n. 13923).

La pronuncia rigetta poi il motivo di gravame con cui l’investitrice ha censurato la decisione di merito per avere escluso l’inadempimento della Banca agli obblighi informativi di cui agli artt. 21 e 23 D.Lgs. n. 58/1998 nonché degli artt. 26 e 28 del Regolamento Consob n. 11522/1998, applicabile ratione temporis, con particolare riguardo alla mancata segnalazione della rischiosità delle obbligazioni in questione, anche in relazione al profilo di rischio della cliente.

La Corte di Cassazione torna dunque sul tema del riparto e del contenuto degli oneri probatori a carico delle parti in materia di violazione degli obblighi di condotta a carico dell’intermediario finanziario.

Come è noto, l’art. 23, co. 6, D.Lgs. 58/1998, dispone che “Nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori, spetta ai soggetti abilitati l'onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta”.

Una parte della giurisprudenza evidenzia che “la mancata prestazione delle informazioni dovute ai clienti da parte della banca intermediaria ingenera una presunzione di riconducibilità alla stessa dell'operazione finanziaria, dal momento che l'inosservanza dei doveri informativi da parte dell'intermediario, costituisce di per sé un fattore di disorientamento dell'investitore che condiziona in modo scorretto le sue scelte di investimento. Tale condotta omissiva, pertanto, è normalmente idonea a cagionare il pregiudizio lamentato dall'investitore, il che, tuttavia, non esclude la possibilità di una prova contraria da parte dell'intermediario circa la sussistenza di sopravvenienze che risultino atte a deviare il corso della catena causale derivante dall'asimmetria informativa” (su tutte, v. Cass., 22/05/2020 , n. 9460; nello stesso 18.05.2017, n. 12544; Cass. 7.06.2017, n. 14166; e, tra le più recenti, Cass. 17.04.2020, n. 7905 e 28.7.2020, n. 16126). Sulla prova del nesso di causalità, v., nella giurisprudenza di merito, la sentenza, n. 23/2021, la Corte d’Appello di Torino, su cui ci siamo soffermati con nota di Francesca Latino, Intermediazione finanziaria: nesso causale presunto o rigoroso onere in capo all’investitore?

L’ordinanza in commento, nel solco di un orientamento giurisprudenziale che sta andando consolidandosi, delimita l’onere a carico della Banca, rilevando che “La disciplina dettata dall'articolo 23, comma 6, del d.lgs. n. 58 del 1998, in armonia con la regola generale stabilita dall'articolo 1218 c.c., impone all'investitore, il quale lamenti la violazione degli obblighi informativi posti a carico dell'intermediario, nel quadro dei principi che regolano il riparto degli oneri di allegazione e prova, di allegare specificamente l'inadempimento di tali obblighi, mediante la pur sintetica ma circostanziata individuazione delle informazioni che l'intermediario avrebbe omesso di somministrare, nonché di fornire la prova del danno e del nesso di causalità tra inadempimento e danno, nesso che sussiste se, ove adeguatamente informato, l'investitore avrebbe desistito dall'investimento rivelatosi poi pregiudizievole; incombe invece sull'intermediario provare che tali informazioni sono state fornite ovvero che esse esulavano  dall'ambito di quelle dovute”.

L’ordinanza in esame, su queste premesse, conclude che l’originario ricorrente non avesse puntualmente allegato le informazioni omesse dalla Banca ovvero quelle che, se fornite, avrebbero indotto la cliente a desistere dall’investimento.

Nel rapporto di lavoro alle dipendenze delle Poste, la nozione di pregiudizio alla società o a terzi, ossia ed eventualmente agli utenti del servizio postale – quale elemento costitutivo della causa legittimante il recesso senza preavviso, in forza della normativa contrattuale collettiva -, non comprende soltanto il danno patrimoniale ma anche l'imminente pericolo per l'interesse degli stessi soggetti.

Questo il principio affermato da Cassazione civile, sezione lavoro, 4 marzo 2024, n. 5677.

La vicenda processuale trae origine dal licenziamento del dipendente delle Poste che aveva svolto diverse operazioni sospette, tutte concernenti la negoziazione di assegni provenienti da compagnie assicurative per risarcimenti danni da infortunistica stradale, e tutte connotate da una serie di gravi irregolarità schematiche e reiterate.

I giudici di merito hanno ritenuto la legittimità del licenziamento sul presupposto che la reiterazione, in un ristretto arco temporale, delle violazioni procedurali fosse sintomatica di un complessivo modus operandi del lavoratore connotato da particolare gravità e, come tale, integrante la fattispecie di cui alla lett. k), art. 54, CCNL per il personale non dirigente di Poste Italiane. In ogni caso, sarebbe rinvenibile un potenziale pregiudizio e il discredito all'immagine per la società (elemento tipico della fattispecie di cui alla lett. c), art. 54, CCNL Poste).

Ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore censurando la sentenza di merito per avere ritenuto i fatti contestasti integranti una giusta causa di recesso, e insistendo nell’assenza di un pregiudizio, effettivo o potenziale, per il datore di lavoro.

La Corte di Cassazione dichiara il ricorso inammissibile in quanto ha censurato la sentenza di merito sotto il profilo della “ricorrenza, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e sue specificazioni e della loro attitudine a costituire giusta causa di licenziamento”, così sottoponendo alla Corte di legittimità un diverso giudizio di fatto, demandato al giudice di merito.

Sul punto è consolidato l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui “L'attività di integrazione del precetto normativo di cui all'art. 2119 c.c. (norma cd. elastica), compiuta dal giudice di merito - ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento - non può essere censurata in sede di legittimità se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza del giudizio di sussunzione del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale, ed in virtù di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale” (su tutte, v. Cass. sez. lav., 20 maggio 2019, n. 13534).

In ogni caso, prendendo in considerazione le doglianze del ricorrente, la Corte rileva che i giudici del merito hanno operato “una corretta sussunzione dei fatti nell'ambito della categoria dell'inadempimento grave, rubricato all'art. 2119 c.c. ed in tale prospettiva, validamente richiamandosi anche alla "scala valoriale" enunciata dalla contrattazione collettiva di settore”.

Con riguardo alla contrattazione collettiva vengono in rilievo nella fattispecie:

  • l’art. 54, co. VI, lett. c) del CCNL Poste, a norma del quale si applica la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso “per violazioni dolose di leggi o regolamenti o dei doveri di ufficio che possano arrecare o abbiano arrecato forte pregiudizio alla Società o a terzi”;
  • l’art. 54, co. VI, lett. k) del medesimo CCNL, il quale ricollega il licenziamento per giusta causa a “fatti o atti dolosi, anche nei confronti di terzi, compiuti in connessione con il rapporto di lavoro, di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro”.

La Corte di Cassazione, già in passato, al cospetto delle medesime clausole contrattuali, ha ritenuto che “ai fini della valutazione della sussistenza della giusta causa di licenziamento, l'art. 54, comma 6, lett. c), del c.c.n.l. in data 11 luglio 2007 per i dipendenti delle Poste italiane, richiede solamente il dolo generico e la mera potenzialità dannosa della condotta contestata” (Cass., sez. lav., 28 ottobre 2021, n. 30461; nello stesso senso,Cass., 4 dicembre 2017 n. 28962).

A tale conclusione si è giunti sulla base del rilievo che “anche a seguito della trasformazione in società per azioni dell'ente pubblico postale, l'impegno di capitale pubblico nella società e lo stesso fine pubblico perseguito (tali da comportare l'assoggettamento della società a verifiche periodiche da parte dell'azionista Ministero dello sviluppo economico sul livello di efficienza nella fornitura del servizio e da sottomettere l'attività svolta ai principi di imparzialità e di buon andamento di cui agli artt. 3 e 97 Cost.), non sono senza riflesso quanto ai doveri gravanti sui lavoratori dipendenti, i quali devono assicurare affidabilità, nei confronti del datore di lavoro e dell'utenza” (tra le prime, Cass., 19 gennaio 2015 n. 776).

Da tali principi si è tratto il corollario, proprio con riferimento all'art. 54 del c.c.n.l. Poste, che “la nozione di pregiudizio alla società o a terzi, ossia eventualmente agli utenti del servizio postale, non comprende soltanto il danno patrimoniale ma anche l'imminente pericolo per l'interesse dei soggetti coinvolti” (cfr. Cass., 5 agosto 2015, n. 16464). Nello stesso senso, ancora di recente, Cass., sez. lav., 4 luglio 2018, n. 17513, ha ribadito che “ai fini della valutazione della sussistenza della giusta causa di licenziamento, ai sensi dell'art. 54, comma 6, lett. c), del c.c.n.l. del 14 aprile 2011 per i dipendenti postali, la nozione di pregiudizio alla società o a terzi è costituita non soltanto dal danno patrimoniale ma anche dall'imminente pericolo per l'interesse dei soggetti coinvolti, pertanto comprende la mera compromissione del particolare affidamento riposto dai cittadini in ordine al servizio degli invii raccomandati, scandito da precisi e rilevanti adempimenti”.

La sentenza in commento si pone nel solco di questa consolidata giurisprudenza, ribadendo il principio della sufficienza dell’imminente pericolo, e del potenziale pregiudizio, per la Società o i terzi, derivante dalla condotta del lavoratore, a integrare una giusta causa di recesso.

In questo senso, è possibile connotare come "forte" il pregiudizio arrecato alla società, nella misura in cui la condotta del dipendente, reiterativa di una operatività in contrasto con i doveri professionali, comprometta quel particolare affidamento riposto in ordine alla corretta esecuzione del servizio relativo alla gestione dei rapporti finanziari.

Il danno da perdita della capacità lavorativa specifica deve essere liquidato ponendo a base del calcolo il reddito che la vittima avrebbe potuto conseguire proseguendo nell'attività lavorativa andata perduta a causa dell'illecito o dell'inadempimento. Tale criterio deve essere applicato anche nell'ipotesi in cui la vittima versi in stato di disoccupazione, ove si tratti di disoccupazione involontaria e incolpevole, nonché temporanea e contingente, sussistendo la ragionevole certezza che il danneggiato, qualora fosse rimasto sano, avrebbe stipulato un nuovo rapporto di lavoro avente ad oggetto la medesima attività lavorativa o comunque una attività confacente al proprio profilo professionale.

Questo il principio affermato da Cass. civile sez. III, 16 febbraio 2024, n. 4289.

La vicenda processuale trae origine dalla domanda di risarcimento dei danni conseguenti alla imprudente ed imperita esecuzione di un intervento chirurgico. I Giudici di merito avevano riconosciuto il danno non patrimoniale e il danno patrimoniale emergente da spese mediche. La Corte d’Appello, in riforma della sentenza di primo grado, aveva accolto anche la domanda di risarcimento del danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa, liquidandolo, in via equitativa, in misura pari a un terzo del danno non patrimoniale, non venendo in rilievo un’incapacità assoluta.

Il danneggiato ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza di merito, tra l’altro, per avere accertato la sussistenza dei presupposti per la liquidazione del danno patrimoniale da mancato guadagno per l'abolizione della capacità lavorativa specifica, salvo poi, contraddittoriamente, negare la liquidazione del relativo danno, sul rilievo della "ipotetica possibilità" di svolgimento di altra attività, tra l'altro comunque "non confacente con la propria professionalità".

La Cassazione muove dall’assunto che il “danno patrimoniale da lucro cessante, inteso come perdita dei redditi futuri in relazione al lavoro svolto al momento dell'evento dannoso, va provato dal danneggiato mediante la dimostrazione che il sinistro abbia determinato la cessazione del rapporto lavorativo in atto e la perdita, per il futuro, del relativo reddito”.

Come affermato dalla più recente giurisprudenza di legittimità, “il reddito perduto dalla vittima costituisce la base di calcolo per la quantificazione del danno da perdita della capacità lavorativa specifica, la quale, peraltro, deve tener conto anche della persistente – benché ridotta – capacità del danneggiato di procurarsi e mantenere, seppur con accresciute difficoltà (il cui peso deve essere adeguatamente considerato), un'altra attività lavorativa retribuita”(Cass., 23 maggio 2023, n.14241).

Pertanto – rileva l’ordinanza in commento - il danno da perdita della capacità lavorativa deve essere liquidato “moltiplicando il reddito perduto per un adeguato coefficiente di capitalizzazione, utilizzando quali termini di raffronto, da un lato, la retribuzione media dell'intera vita lavorativa della categoria di pertinenza, desunta da parametri di rilievo normativi o altrimenti stimata in via equitativa, e, dall'altro, coefficienti di capitalizzazione affidabili, in quanto aggiornati e scientificamente corretti, quali, ad esempio, quelli approvati con provvedimenti normativi per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali oppure quelli elaborati specificamente nella materia del danno aquiliano”.

Come ribadito, ancora di recente, da Cass. 16 gennaio 2024, n. 1607 (con nota, sul nostro sito, di Maria Santina Panarella, dal titolo, Come deve essere risarcito il danno da perdita di capacità lavorativa specifica in caso di illecito?), “il danno patrimoniale da lucro cessante, inteso come perdita dei redditi futuri, va liquidato tenendo conto di tutte le retribuzioni (nonché di tutti i relativi accessori e probabili incrementi, anche pensionistici) che egli avrebbe potuto ragionevolmente conseguire in base a quello specifico rapporto di lavoro, in misura integrale e non in base alla sola percentuale di perdita”.

Se è vero che questi criteri sono calibrati sul caso di un rapporto di lavoro in essere al momento dell’evento dannoso, la giurisprudenza di legittimità ormai estende l’applicazione degli stessi al caso in cui lo stato di disoccupazione, oltre che involontario, sia anche contingente e temporaneo, sussistendo la ragionevole certezza o addirittura la positiva dimostrazione che, se non vi fosse stato l'illecito, il danneggiato avrebbe ripreso lo svolgimento della medesima attività lavorativa o comunque di un'attività confacente alle sue attitudini, idonea a produrre lo stesso reddito.

Come rilevato da Cass. n. 9682 del 2020, ai fini della liquidazione del danno da perdita della capacità lavorativa specifica, il Giudice deve chiedersi:

  1. se possa ritenersi che la vittima, se fosse rimasta sana, avrebbe cercato e trovato un lavoro confacente al proprio profilo professionale;
  2. se i postumi residuati all'infortunio consentano o meno lo svolgimento di un lavoro confacente al profilo professionale della vittima.

L’ordinanza in commento, applicando tali principi, conclude che la Corte territoriale ha liquidato irragionevolmente, nella misura di un terzo del danno non patrimoniale già liquidato dal primo giudice, il danno patrimoniale di cui era stato invocato il ristoro, senza tenere conto che:

  • il danneggiato aveva sempre svolto l'attività lavorativa di autotrasportatore;
  • al momento dell'illecito si trovava in stato di disoccupazione non per propria volontà o colpa, ma per vicende oggettive che avevano colpito l'impresa datrice di lavoro;
  • sussisteva la ragionevole certezza - se non la positiva dimostrazione - che lo stato di disoccupazione sarebbe cessato, con ripresa della medesima attività lavorativa, ove non vi fosse stato l'illecito, per avere egli ricevuto una proposta di assunzione da un'altra impresa.
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