È possibile la costituzione, mediante convenzione, di servitù avente ad oggetto il parcheggio di un veicolo sul fondo altrui purché tale facoltà risulti essere stata attribuita come vantaggio in favore di altro fondo per la sua migliore utilizzazione e sempre che sussistano i requisiti del diritto reale.

Questo il principio affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza del 13 febbraio 2024, n. 3925.

La vicenda processuale trae origine dalla domanda di nullità di un contratto costitutivo di servitù di parcheggio e transito di automezzi. La domanda è stata rigettata dai giudici di merito e ha proposto ricorso per cassazione il proprietario del fondo servente. Il primo Presidente – su istanza del ricorrente – ha rimesso alle Sezioni Unite la questione della possibilità di costituire, in via convenzionale, una servitù prediale di parcheggio.

La sentenza in commento muove dalla ricognizione degli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali formatisi al riguardo.

Un primo orientamento, risalente a Cass., 28 aprile 2004, n. 8137, ritiene che il parcheggio di autovetture non può costituire “un potere di fatto riconducibile al contenuto di un diritto di servitù”, difettando la realità “intesa come inerenza al fondo dominante dell'utilità così come al fondo servente del peso”. Infatti, “la mera commoditas di parcheggiare l'auto per specifiche persone che accedano al fondo (anche numericamente limitate) non può in alcun modo integrare gli estremi della utilità inerente al fondo stesso, risolvendosi, viceversa, in un vantaggio affatto personale dei proprietari” Il principio è stato ripreso da Cass., n. 20409 del 2009, la quale ha evidenziato che “il nostro sistema giuridico non prevede la facoltà, per i privati, di costituire servitù meramente personali (cosiddette "servitù irregolari"), intese come limitazioni del diritto di proprietà gravanti su di un fondo a vantaggio non del fondo finitimo, bensì del singolo proprietario di quest'ultimo, sì che siffatta convenzione negoziale, del tutto inidonea alla costituzione del diritto reale limitato di servitù, va inquadrata nell'ambito del diritto d'uso, ovvero nello schema del contratto di locazione o dei contratti affini, quali l'affitto o il comodato”.

A partire dal 2017 si è andato accreditandosi presso la giurisprudenza di legittimità un opposto orientamento, di cui dà ampio conto la sentenza in commento, che ammette, a certe condizioni, la possibilità di costituzione della servitù di parcheggio. Viene in rilievo, Cass., 6 luglio 2017, n. 16698, secondo cui “lo schema previsto dall’art. 1027 c.c. non preclude in assoluto la costituzione di servitù avente ad oggetto il parcheggio di un'autovettura su fondo altrui, a condizione che, in base all’esame del titolo e ad una verifica in concreto della situazione di fatto, tale facoltà risulti essere stata attribuita come vantaggio in favore di altro fondo per la sua migliore utilizzazione”.

In altre parole, come rileva la sentenza in commento, “la realitas, che distingue il ius in re aliena dal diritto personale di godimento, implica dunque l'esistenza di un legame strumentale ed oggettivo, diretto ed immediato, tra il peso imposto al fondo servente ed il godimento del fondo dominante, nella sua concreta destinazione e conformazione, al fine di incrementarne l'utilizzazione, sì che l'incremento di utilizzazione deve poter essere conseguito da chiunque sia proprietario del fondo dominante e non essere legato ad una attività personale del soggetto”. Inoltre, rilevano le Sezioni Unite, posto che “la servitù consiste nella conformazione del diritto di proprietà in modo divergente dallo statuto legale, essa non è compatibile con lo svuotamento delle facoltà del proprietario del fondo servente, al quale deve residuare la possibilità di utilizzare il fondo, pur con le restrizioni e limitazioni che discendono dal vantaggio concesso al fondo dominante”.

Quali punti di emersione di questo orientamento si citano la sentenza n. 12798 del 2019, l’ordinanza n. 24121 del 2020, la sentenza n. 193 del 2020, e, ancora più di recente, l’ordinanza n. 1486 del 2023; lo stesso principio viene richiamato nell’ordinanza n. 7620 del 2023 in tema di tutela possessoria ove si afferma che “lo spoglio può avere ad oggetto anche il possesso corrispondente ad una signoria di fatto sul bene corrispondente ad una servitù di parcheggio e, dunque, può realizzarsi con modalità tali da precludere al possessore la possibilità di transito attraverso un passaggio a ciò destinato indipendentemente dalla sussistenza o meno della titolarità del corrispondente diritto reale”.

Così ricostruiti i tratti essenziali del dibattito giurisprudenziale e dottrinale in materia le Sezioni Unite ritengono di aderire alla tesi favorevole alla configurabilità, a determinate condizioni, di una convenzione istitutiva della servitù di parcheggio.

Le Sezioni Unite, riscontrano, in primo luogo, una “indubbia affinità tra il transitare o il parcheggiare un'autovettura all'interno di un fondo di proprietà altrui, perché in entrambi i casi i proprietari di fondi confinanti, in base al principio dell'autonomia contrattuale di cui all'art. 1322 cc, possono dar luogo sia ad un rapporto di natura reale (attraverso l'imposizione di un peso sul fondo servente per l'utilità del fondo dominante e quindi in una relazione di asservimento del primo al secondo, che si configura come qualitas fundi), sia alla pattuizione di un obbligo e di un corrispettivo diritto previsto a vantaggio e per la comodità della persona o delle persone specificamente indicate nell'atto costitutivo, senza alcuna funzione di utilità fondiaria”.

Nel senso della configurabilità in termini di diritto reale d’uso delle aree di parcheggio depone poi l’art. 18 della Legge n. 765 del 1967 che ha condizionato l’edificabilità del fondo destinato a una nuova costruzione alla disponibilità di spazi riservati a parcheggio in misura non inferiore ad un metro quadro ogni dieci metri di costruzione. Da tale disposizione, la Corte trae il dato della (possibile) inerenza del parcheggio al fondo. Sarebbe, infatti, contraddittorio sostenere che “il parcheggio non sarebbe utile al fondo nonostante ne condizioni addirittura l'edificabilità”.

La Corte – nel solco della dottrina dominante - evidenzia che la tesi favorevole alla costituzione della servitù di parcheggio, oltre che in linea con il sistema, esalta il principio dell’autonomia contrattuale (art. 1322 c.c.). In questo senso, le parti sono libere di prevedere “una utilitas - destinata a vantaggio non già di una o più persone, ma di un fondo - che si traduca nel diritto di parcheggio di autovetture secondo lo schema appunto della servitù prediale e quindi nell'osservanza di tutti i requisiti del ius in re aliena, quali l'altruità della cosa, l'assolutezza, l'immediatezza (non necessità dell'altrui collaborazione, ai sensi dell'art. 1064 cod. civ.), l'inerenza al fondo servente (diritto opponibile a tutti coloro che vantino diritti sul fondo servente potenzialmente in conflitto con la servitù), l'inerenza al fondo dominante (l'utilizzo del parcheggio deve essere, nel contempo, godimento della proprietà del fondo dominante, secondo la sua destinazione), la specificità dell'utilità riservata, la localizzazione intesa quale individuazione del luogo di esercizio della servitù affinché non si incorra nella indeterminatezza dell'oggetto e nello svuotamento di fatto del diritto di proprietà”.

Le Sezioni Unite concludono dunque nel senso della possibilità di costituire, mediante convenzione, una servitù avente ad oggetto il parcheggio di un veicolo su fondo altrui a condizione che “in base all'esame del titolo e ad una verifica in concreto della situazione di fatto, tale facoltà risulti essere stata attribuita come vantaggio in favore di altro fondo per la sua migliore utilizzazione e sempre che sussistano i requisiti del diritto reale e in particolare la localizzazione”.   

Il post del lavoratore sindacalista su Facebook travalica i limiti del diritto di critica se attribuisce al datore di lavoro, o ai suoi dirigenti, condotte o qualità disonorevoli, non provate, e legittima, pertanto, il licenziamento per giusta causa.

Questo il principio ribadito dalla Cassazione, sezione lavoro, con ordinanza del 22 dicembre 2023, n. 35922.

La vicenda decisa dalla Suprema Corte trae origine, come si evince dall’antefatto processuale, dalla impugnativa del licenziamento disciplinare disposto nei confronti del lavoratore che aveva pubblicato sulla sua bacheca Facebook, “in maniera visibile dalla generalità degli utenti”, alcuni commenti “gravemente lesivi dell'immagine e del prestigio dell'azienda nonché dell'onorabilità e dignità dei suoi responsabili”.

La Corte di merito - appurata la “generale visibilità e diffusività dei messaggi "postati" su Facebook” – aveva ritenuto il carattere diffamatorio della condotta addebitata al lavoratore, il travalicamento dei limiti di continenza verbale e l'insussistenza dei presupposti della scriminante dell'esercizio del diritto di critica nell'ambito delle relazioni sindacali.

Ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore, censurando la sentenza di merito, tra l’altro, per avere escluso la scriminante del diritto di critica, sebbene dai post pubblicati non emergesse alcuna lesione della reputazione della società ma solo una dura dialettica sindacale.

La sentenza in commento muove dalla delimitazione del diritto di critica del lavoratore.

Sotto questo profilo la giurisprudenza di legittimità è concorde nell’affermare che “È legittimo il licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore che pur esercitando il proprio diritto di critica nei confronti del datore di lavoro, o superiore gerarchico, utilizza espressioni tali da superare i limiti della continenza sostanziale, intesa come la congruenza dei fatti alla verità, nonché di quella formale quale normalità delle modalità ammissibili nell'esposizione dei fatti”. Detto comportamento, infatti, integrando una condotta lesiva del prestigio aziendale e pertanto una violazione dei doveri di correttezza, diligenza e buona fede ex art. 2105, c.c., risulta tale da ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario posto alla base del rapporto lavorativo (su tutte, Cass., sez. lav., 18 luglio 2018, n. 19092).

Ancora di recente è stato ribadito che la critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall’obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti “può essere di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio all’organizzazione aziendale, dal momento che l’efficienza di quest’ultima riposa sull’autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti e quadri intermedi ed essa risente un indubbio pregiudizio allorché il lavoratore, con toni ingiuriosi, attribuisca loro qualità manifestamente disonorevoli” (Cass. 13 ottobre 2021, n. 27939, pubblicata sul nostro sito con commento di Maria Santina Panarella, Post offensivo pubblicato su Facebook: il licenziamento è legittimo).

Con riguardo al mezzo di diffusione della critica, come pure rilevato nella parte motiva della sentenza in esame, il post su Facebook, in quanto visibile dalla generalità degli utenti, è idoneo a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone e dunque a ledere l’immagine del datore di lavoro e l’onorabilità dei dirigenti coinvolti.

In questa prospettiva è stato ritenuto integrare una “grave insubordinazione, da sanzionare con il licenziamento per giusta causa”,il comportamento del lavoratore che, “a mezzo di tre e-mail e di un messaggio sul proprio profilo Facebook, diffonde comunicazioni dai contenuti gravemente offensivi e sprezzanti nei confronti delle sue dirette superiori e degli stessi vertici aziendali. Il mezzo utilizzato è idoneo a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone e la critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall'obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti può essere di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio all'organizzazione aziendale” (Cass., sez. lav., 13 ottobre 2021, n. 27939). 

La posizione di sindacalista ricoperta dal lavoratore, poi, non legittima di per sé il travalicamento dei limiti al diritto di critica. La Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare, infatti, che “l'esercizio da parte del lavoratore, anche se investito della carica di rappresentante sindacale, del diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore di lavoro … sebbene sia garantito dagli art. 21 e 39 cost., incontra i limiti della correttezza formale imposti dall'esigenza, anch'essa costituzionalmente garantita (art. 2 cost.), di tutela della persona umana”. Ne consegue che “ove tali limiti siano superati con l'attribuzione all'impresa datoriale o a suoi dirigenti di qualità apertamente disonorevoli e di riferimenti denigratori non provati, il comportamento del lavoratore può essere legittimamente sanzionato in via disciplinare” (in questi termini Cass., sez. lav., 17 dicembre 2003, n. 19350).

Applicando tali principi, la sentenza in commento ha condiviso le conclusioni della Corte di merito che aveva “escluso che ricorressero i presupposti di un legittimo esercizio del diritto di critica per essere le espressioni usate dal lavoratore sindacalista, e pubblicate sul profilo Facebook accessibile a tutti gli utenti, "intrise di assai sgradevole volgarità", prive di qualsiasi seria finalità divulgativa e finalizzate unicamente a ledere il decoro e la reputazione dell'azienda e del suo fondatore”.

La procura alle liti non deve necessariamente essere conferita nello stesso contesto spaziale e temporale di redazione del ricorso per cassazione. È necessario soltanto che essa sia “congiunta, materialmente o mediante strumenti informatici, al ricorso e che il conferimento non sia antecedente alla pubblicazione del provvedimento da impugnare e non sia successivo alla notificazione del ricorso stesso”.

Questo il principio affermato, con sentenza del 19 gennaio 2024, n. 2075,dalle Sezioni Unite, investite della questione se la procura speciale per proporre ricorso per cassazione possa essere rilasciata in data anteriore alla redazione del ricorso e in luogo diverso da quello indicato nell’atto stesso.

L’ordinanza interlocutoria n. 19039 del 5 luglio 2023 aveva rinvenuto un contrasto giurisprudenziale sulla questione nell’ambito delle sezioni semplici.

In particolare, secondo un primo orientamento (da ultimo ripreso da Cass., Sez. III, 4 aprile 2023, n. 9271; v., tra le altre citate dalla sentenza in commento, Cass., Sez. III, 6 aprile 2022, n. 11240; Cass., Sez. III, 7 aprile 2022, n. 11244; Cass., Sez. III, 21 aprile 2022, n. 12707; Cass., Sez. III, 4 novembre 2022, n. 32569), le ragioni che impongono il rilascio della procura alle liti per la proposizione di ricorso per cassazione contestualmente alla redazione dell’atto di impugnazione, sarebbero rinvenibili:

  • nell’art. 83, terzo comma, c.p.c. dev’essere necessariamente “apposta in calce o a margine” di uno negli atti elencati della medesima norma, e deve quindi essere necessariamente collegato allo stesso;
  • nella previsione dell’art. 2703, secondo comma, c.c. secondo cui l’autenticazione della sottoscrizione deve avvenire alla presenza del pubblico ufficiale a ciò abilitato;
  • nell’art. 83, comma 20 ter, del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, inserito dalla legge di conversione 24 aprile 2020, n. 127, che ha legittimato, nel periodo dell’emergenza da Covid 19, la certificazione dell’autografia della sottoscrizione “apposta dalla parte anche su un documento analogico trasmesso al difensore, anche in copia informatica per immagine, unitamente a copia di un documento di identità in corso di validità, anche a mezzo di strumenti di comunicazione elettronica

Secondo una diversa ricostruzione, “il requisito della specialità della procura, di cui all’art. 83, comma 3, c.p.c., non postula la contestualità del relativo conferimento rispetto alla redazione dell’atto cui accede, dal momento che, anche nel caso in cui la procura sia stata redatta, sottoscritta e autenticata in data anteriore a quella del ricorso, è possibile desumerne la specialità, da un lato, dalla sua congiunzione (materiale o telematica) al ricorso e, dall’altro, dalla sua susseguente notifica insieme a quest’ultimo” (Cass., Sez. III, 15 dicembre 2022, n. 36827).

Se, infatti, la ratio del citato art. 83 risiede “nella certezza e nella conoscibilità del potere rappresentativo del difensore che sostituisce in giudizio la parte”, è sufficiente che la procura speciale sia rilasciata in epoca successiva al provvedimento da impugnare e in epoca anteriore alla notificazione del ricorso. 

In questi termini, tra le molte citate Cass., Sez. Lav., 21 novembre 2023, n. 32248.

Le Sezioni Unite, pur ripercorrendo il percorso argomentativo dell’ordinanza remittente, evidenziano come l’orientamento meno restrittivo sia in realtà ben radicato nella giurisprudenza del Supremo Collegio, dubitando quindi, già in premessa, dell’effettiva esistenza di un contrasto giurisprudenziale.

La sentenza in commento, prendendo le mosse da affermazioni di carattere generale, dà quindi seguito ad un approccio sostanzialistico. In questa prospettiva, il punto di riferimento è rappresentato dal sistema di valori delineato dalla Costituzione (artt. 24 e 111) e dalla normativa sovranazionale (art. 47 della Carta di Nizza, art. 19 del Trattato sull’Unione europea, art. 6 CEDU), che privilegia il diritto di difesa, il quale si esplica anche nel principio che “impone di evitare eccessi di formalismo e, quindi, restrizioni del diritto della parte all’accesso ad un tribunale che non siano frutto di criteri ragionevoli e proporzionali” (tra le altre, citate nella pronuncia in commento, Corte EDU, 16 giugno 2015, Mazzoni c. Italia; Corte EDU, 28 ottobre 2021, Succi c. Italia; nella giurisprudenza interna, v., tra le molte, Cass., S.U., 18 marzo 2022, n. 8950).

Ciò premesso, la Corte – richiamando Cass. 36507/22 - individua quale requisito essenziale affinché l’avvocato possa spendere il potere di certificazione dell’autografia della sottoscrizione la “collocazione topografica” della procura rispetto all’atto cui si riferisce. Dunque, “la firma per autentica apposta dal difensore su foglio separato, ma materialmente congiunto all'atto, è in tutto equiparata alla procura redatta a margine o in calce allo stesso; tale collocazione topografica fa sì che la procura debba considerarsi conferita per il giudizio di cassazione anche se non contiene un espresso riferimento al provvedimento da impugnare o al giudizio da promuovere”.

D’altro canto, lo stesso art. 83 c.p.c. “non fa menzione della data (né tantomeno del luogo) di conferimento quale requisito di forma-contenuto della procura alle liti” (in questi termini, il richiamo è a Cass., Sez. Un., 1° giugno 2021, n. 15177). 

Le Sezioni Unite, dunque, concludono nel senso che “il potere-dovere che la disciplina generale dell’art. 83, terzo comma, c.p.c. attribuisce al difensore investe (e si esaurisce nel) la certificazione della sottoscrizione autografa della procura da parte dal suo assistito” e non altro. Se ne deve trarre quale corollario che non è necessario che il conferimento della procura “sia contestuale o successivo alla redazione dell'atto, non essendo richiesta, a pena di nullità, la dimostrazione della volontà della parte di fare proprio il contenuto del medesimo atto nel momento stesso della sua formazione ovvero ex post”.

In altre parole, “Il conferimento della procura a margine o in calce (anche nelle distinte modalità – della procura nativa digitale e della copia informatica di procura rilasciata su supporto cartaceo - contemplate dal terzo comma dell’art. 83 c.p.c.), provando l'esistenza del rapporto fiduciario tra la parte ed il patrono da essa scelto, soddisfa compiutamente il dettato dello stesso art. 83 c.p.c.". E ciò sul presupposto che la ratio della norma" risiede nella certezza e nella conoscibilità all'esterno del potere rappresentativo del difensore, che sostituisce in giudizio la parte, e non già nella corrispondenza dell'attività svolta dal difensore all'effettivo volere del rappresentato, che attiene esclusivamente al rapporto interno tra difensore e cliente”.

In conclusione, quindi, ai fini della ammissibilità del ricorso per cassazione è necessario e sufficiente che “il conferimento della procura alle liti avvenga all’interno della finestra temporale segnata dal momento (iniziale) di pubblicazione del provvedimento da impugnare e da quello (finale) della notificazione del ricorso: dunque, rispettivamente, né prima, né dopo”.

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