Il Garante per la protezione dei dati personali ha reso il proprio parere in relazione allo schema di disegno di legge recante disposizioni e deleghe in materia di intelligenza artificiale.

Il parere è favorevole, ma a condizione che vengano realizzate una serie di modifiche e integrazioni.

Secondo il Garante, il disegno di legge reca norme rilevanti sullo sviluppo dell’i.a., volte a indirizzarne l’applicazione in una direzione antropocentrica, compatibile con i diritti fondamentali e il principio di non discriminazione.

L’intento sotteso al provvedimento sarebbe, dunque, certamente condivisibile. Tuttavia, a dire del Garante, il legislatore dovrebbe valutare – proprio per la natura “programmatica” di molte sue norme – la possibile sovrapposizione con alcune disposizioni dell’AI Act.

Per questo motivo, al Capo I del disegno di legge, il Garante consiglia di introdurre un articolo specifico e ad applicazione trasversale, recante un vincolo generale di conformità dei trattamenti di dati personali funzionali a sistemi di i.a. alla disciplina rilevante in materia.

Il Garante ha poi formulato alcune osservazioni, segnalando l’opportunità di alcune modifiche o integrazioni. In particolare, si segnalano le proposte relative ai seguenti articoli:

  • l’art. 4, in tema di legittimazione del minore; viene proposta la sostituzione del riferimento ai quattordici anni con quello all’età prevista dall’articolo 2-quinquies del Codice e l’integrazione con il riferimento a misure idonee a garantire sistemi adeguati di verifica dell’età del minore.
  • l’art. 7, in ambito sanitario: viene proposta l’integrazione dell’articolo richiamando i requisiti previsti dall’articolo 10 dell’AI Act per i sistemi di i.a. considerati ad alto rischio, con specifico riferimento al trattamento dei dati particolari di cui all’articolo 9 del Regolamento, in particolare prevedendo che sia preferito l’uso di dati sintetici o anonimi e siano indicate particolari limitazioni per l’utilizzo di dati sanitari (divieto di trasmissione, trasferimento o comunicazione), nonché la limitazione della conservazione;
  • l’art. 10: secondo il Garante, questo articolo meriterebbe alcune integrazioni volte a introdurre le necessarie garanzie per il ricorso all’i.a. in un settore, quale quello lavoristico, in cui le esigenze di tutela e non discriminazione sono particolarmente rilevanti: si reputa necessario richiamare le garanzie previste, dagli articoli 22, par. 3 e 88 del Regolamento, 113 e 114 del Codice, per il trattamento di dati personali funzionale ai sistemi di i.a. utilizzati nel contesto lavorativo. Inoltre, questo articolo apparirebbe in certa misura parziale, riferendosi alla sola fase successiva all’instaurazione del rapporto di lavoro, laddove i sistemi di i.a. sono spesso utilizzati in fase preassuntiva, a fini di selezione del personale, cui pertanto le garanzie introdotte vanno estese. Viene proposto, pertanto, di aggiungere un comma ulteriore, dal tenore seguente: “Le disposizioni del presente articolo si applicano, ove compatibili, anche ai trattamenti effettuati in fase preassuntiva”.
  • l’art. 18 dovrebbe essere perfezionato, chiarendo il ruolo del Garante come autorità indipendente.

Avendo reso il Garante il proprio parere, così come previsto dall’art. 154, co. 5 - bis del Codice in materia di protezione dei dati personali in relazione all’art. 36, co. 4° del Regolamento il disegno di legge proseguirà, a questo punto, il suo iter.

Una recente pronuncia della Corte di Cassazione ha affrontato tale questione (ordinanza 2 agosto 2024, n. 21766).

La vicenda aveva preso le mosse dal caso di un lavoratore al quale era stato addebitato lo svolgimento, nei giorni di assenza per malattia, di attività extralavorative incompatibili con la malattia certificata ovvero di trovarsi in uno stato di salute compatibile con la prestazione lavorativa. La Corte d’appello aveva confermato la senza di primo grado che, a sua volta, aveva confermato l’ordinanza ex art. 1 co. 49, l. 92/2012 di rigetto della domanda di illegittimità del licenziamento.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dal lavoratore il quale aveva censurato la sentenza impugnata per aver questa ritenuto legittimi gli accertamenti investigativi disposti dalla datrice di lavoro.
In particolare, secondo la Corte, non vi sarebbe stata la denunciata violazione dei limiti entro i quali è consentito al datore di lavoro lo svolgimento di accertamenti investigativi. Gli accertamenti svolti, infatti, nel caso di specie, secondo la Cassazione, non avevano finalità di tipo sanitario, bensì “miravano a verificare se le plurime specifiche condotte extralavorative, poi contestate, fossero o meno compatibili con la malattia addotta dal lavoratore per giustificare l'assenza dal lavoro e dunque l'idoneità della predetta malattia a determinare uno stato di incapacità lavorativa”.

La Suprema Corte ha così richiamato il proprio orientamento che ha affermato la legittimità del controlli affidati ad agenzie investigative, anche al di fuori di locali aziendali, ove non aventi ad oggetto l’espletamento dell'attività lavorativa, e che ha sottolineato come le disposizioni dell’art. 5 St. Lav. (che vietano al datore di lavoro di svolgere accertamenti sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e lo autorizzano a effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti) non precludono al datore di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato d’incapacità lavorativa rilevante e, quindi, a giustificare l'assenza (Cass. n. 11697/2020, Cass. n. 15094/2018, Cass. n. 25162/2014, Cass. n. 6236/2001).

La sussistenza di una giusta causa di licenziamento è stata così confermata dalla Corte secondo la quale la valutazione svolta sul punto dal giudice di merito non sarebbe stata inficiata dalle censure articolate dal ricorrente. Questi, infatti, secondo la Cassazione, non avrebbe individuato “alcuno specifico contrasto con i criteri e principi desumibili dall'ordinamento generale e dalla coscienza sociale in relazione ai parametri astratti ai quali ha fatto riferimento il giudice di merito nel ritenere la configurabilità della giusta causa di licenziamento, come, viceversa, richiesto per la denunzia di violazione ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c. riferita alle norme richiamate in rubrica (Cass. n. 28492/2018, Cass. n. 7426/2018, Cass. n. 25144/2010, Cass. n. 7838/2005)”.

Anche la violazione del contratto collettivo, del pari lamentata dal lavoratore nel ricorso, è stata esclusa. Secondo la Corte, la lettura data dal giudice d’appello sarebbe corretta, laddove, con ragionamento congruo ed esaustivo, aveva escluso che il fatto addebitato potesse essere ricondotto tra le condotte sanzionabili con misure conservative, “non trattandosi di una semplice assenza dal servizio bensì di una condotta caratterizzata da un quid pluris, e, in particolare, dall’aver il lavoratore tenuto - in violazione delle regole che presidiano la disciplina e la diligenza del lavoro - un comportamento contrario allo stato di malattia ovvero dall'aver taciuto di trovarsi in uno stato compatibile con lo svolgimento dell'attività lavorativa”.

Il ricorso, come detto, è stato rigettato.

Il consumatore che ha prenotato un viaggio all’estero può agire in giudizio contro l’organizzatore dinanzi al giudice del luogo del proprio domicilio. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nella sentenza del 29 luglio 2024, resa nella causa C-744/22, ha stabilito che questo principio vale anche nel caso in cui il consumatore e l’organizzatore siano domiciliati nello stesso Stato membro.

Un consumatore, residente a Norimberga (Germania), aveva concluso un contratto per un viaggio all’estero con un organizzatore di viaggi con sede a Monaco di Baviera (Germania). Ritenendo di non essere stato sufficientemente informato sulle condizioni d’ingresso e sui visti necessari, il consumatore aveva proposto un’azione per il risarcimento del danno contro l’organizzatore dinanzi al Tribunale circoscrizionale di Norimberga. La Società aveva eccepito l’incompetenza territoriale del giudice ritenendo che il regolamento “Bruxelles I bis”, concernente la competenza giurisdizionale, non si applicasse nel caso in cui le due parti fossero domiciliate nello stesso Stato membro. Il Tribunale circoscrizionale di Norimberga aveva così investito della questione la Corte di Giustizia.

Si rammenta che il Regolamento “Bruxelles I bis (n. 1215/2012) attribuisce la competenza ai giudici dello Stato membro nel cui territorio è domiciliato il convenuto. Secondo, invece, la norma speciale di competenza giurisdizionale in materia di contratti conclusi dal consumatore, questi può agire in giudizio nei confronti della sua controparte dinanzi ai giudici dello Stato membro in cui è domiciliata quest’ultima oppure dinanzi al giudice del luogo in cui è domiciliato egli stesso.

Secondo la Corte di Giustizia, la controversia relativa ad un contratto di viaggio rientra nell’ambito di applicazione del Regolamento citato anche se le parti contraenti, ossia il consumatore e la sua controparte, sono entrambe domiciliate nello stesso Stato membro, qualora la destinazione del viaggio sia all’estero. Tale elemento di estraneità – secondo la Corte - è sufficiente a rendere applicabile il Regolamento Bruxelles I bis.

Inoltre, a dire della Corte, detto Regolamento non si limita a determinare la competenza giurisdizionale internazionale, bensì anche la competenza territoriale assegnandola direttamente al giudice del luogo del domicilio del consumatore, “individuando direttamente un determinato giudice nello Stato membro, senza operare alcun rinvio alle norme sulla ripartizione della competenza territoriale in vigore nello stesso Stato membro”.

Come si legge nella stessa pronuncia, tale interpretazione è avvalorata dagli obiettivi perseguiti dalle disposizioni contenute nel regolamento n. 1215/2012, in particolare dal fatto che “la norma speciale sulla competenza prevista all'articolo 18 del regolamento n. 1215/2012 è volta a garantire che la parte più debole che intenda agire in giudizio contro la parte più forte possa farlo davanti a un giudice di uno Stato membro facilmente accessibile”. Questa regola – rammenta la Corte - tutela il consumatore facilitando l'accesso alla giustizia e mostra la preoccupazione del legislatore dell’Unione che il consumatore possa essere scoraggiato ad agire in giudizio se il giudice competente, pur avendo sede nello Stato membro in cui vive, non è quello del suo domicilio.

La Corte ha così risposto alla questione sollevata dichiarando che “l'articolo 18 del regolamento n. 1215/2012 deve essere interpretato nel senso che esso stabilisce la competenza sia internazionale sia territoriale del giudice dello Stato membro nella cui circoscrizione è domiciliato il consumatore, qualora tale giudice sia investito da detto consumatore di una controversia tra quest'ultimo e un organizzatore di viaggi a seguito della conclusione di un contratto di pacchetto turistico, e qualora tali due contraenti siano entrambi domiciliati in detto Stato membro, ma la destinazione del viaggio sia all'estero”.

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