Il Consiglio Europeo, nella seduta del 19 novembre 2024, ha adottato un Regolamento diretto a vietare l’immissione, la messa a disposizione sul mercato dell’Unione, o l’esportazione, di prodotti ottenuti ricorrendo al lavoro forzato.
Secondo le statistiche ufficiali riportate nei considerando del Regolamento, quasi 27 milioni di persone nel mondo lavorano in condizioni di lavoro forzato in molti settori e in ogni contenente. L’86 % dei casi di lavoro forzato riguarda il settore privato, ma ci sono anche casi in cui è imposto dallo Stato. Il lavoro forzato “costituisce una grave offesa alla dignità umana e una violazione dei diritti umani fondamentali, contribuisce alla perpetuazione della povertà e ostacola il conseguimento dell'obiettivo di un lavoro dignitoso per tutti”.
Per completare il quadro legislativo e politico dell'Unione in materia di lavoro forzato, l’UE ha così ritenuto opportuno introdurre nuove disposizioni; attualmente, infatti, non esiste una normativa dell'Unione che consente alle autorità degli Stati membri di intervenire direttamente per trattenere, sequestrare od ordinare il ritiro di un prodotto sulla base della constatazione che esso è stato ottenuto, in tutto o in parte, con il lavoro forzato.
Al fine di garantire l'efficacia delle nuove disposizioni, il divieto di prodotti ottenuti con il lavoro forzato si applicherà:
Il testo (qui è visionabile il testo integrale che ora attende di essere pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione), all’art. 3, contiene il chiaro divieto di prodotti ottenuti con il lavoro forzato, disponendo che “Gli operatori economici non immettono né mettono a disposizione sul mercato dell'Unione prodotti ottenuti con il lavoro forzato, né esportano tali prodotti”.
Anche le vendite a distanza, compresa la vendita online, rientrano nell'ambito di applicazione. Secondo l’art. 4, infatti, “i prodotti messi in vendita online o tramite altri canali di vendita a distanza sono considerati disponibili sul mercato se l'offerta è destinata agli utilizzatori finali dell'Unione”.
Nel complesso, e nella pratica, il nuovo Regolamento consentirà all'UE di vietare e rimuovere un prodotto dal mercato unico se è dimostrato che è stato ottenuto da lavoro forzato, indipendentemente dal fatto che sia prodotto all'interno dell'UE o importato nell'UE.
Verrà istituita una banca dati contenente informazioni verificabili e regolarmente aggiornate sulle zone o sui prodotti a rischio di lavoro forzato.
Le indagini saranno svolte da diverse autorità:
Il Regolamento entrerà in vigore il giorno successivo alla pubblicazione e si applicherà a decorrere da 36 mesi dalla data di pubblicazione.
Il danno patrimoniale per spese di assistenza vita natural durante, consistente nella necessità di dovere retribuire una persona che garantisca l'assistenza personale ad un soggetto invalido, è un pregiudizio permanente che si produce “de die in diem”. Per la sua liquidazione occorre distinguere il danno passato, già verificatosi, che presuppone che il danneggiato abbia dimostrato (anche attraverso presunzioni semplici, ex art. 2727 c.c.) di aver sostenuto dette spese, dal danno futuro, non ancora verificatosi al momento della decisione, ma che si verrà ragionevolmente a determinare per tutta la durata della vita residua del danneggiato.
Questi sono i principi che ha recentemente affermato la Corte di Cassazione (ordinanza 13 novembre 2024, n. 29307).
Il caso aveva preso le mosse dalle pretese avanzate nei confronti del Ministero dell’Istruzione e della Società proprietaria di un albergo dirette ad ottenere il risarcimento dei danni, patrimoniali e non, da parte di una ragazza che aveva riportato postumi invalidanti gravissimi, a causa delle lesioni sofferte durante una gita scolastica.
Dopo tre giudizi di rinvio, la vicenda è tornata all’esame della Corte di Cassazione che, con una interessante motivazione, ha esplicitato i principi sopra citati.
Dagli stessi discende – come si legge nella pronuncia – che il risarcimento del danno patrimoniale relativo ad un periodo passato al momento della liquidazione dello stesso, cioè un danno che risulta, almeno in tesi, già verificatosi in concreto, non può essere effettuato con i criteri probabilistici ed astratti che devono essere (necessariamente) utilizzati per liquidare il danno futuro (cioè, quello non ancora verificatosi al momento della decisione). Al contrario, il danno passato deve essere allegato e provato in concreto.
La Cassazione ha ritenuto necessario precisare che tale conclusione non è in contrasto con il principio dalla medesima affermato secondo il quale deve ritenersi “illogica la motivazione che esclude l'esistenza del danno in presenza del volontario contributo assistenziale fornito da un familiare” (Cass. n. 20661 del 24 luglio 2024), atteso che tale ultimo incontestabile rilievo vale per i danni patrimoniali futuri e non per quelli relativi al passato.
Resta, poi, ferma – secondo la Suprema Corte - la possibilità, per il familiare che abbia prestato gratuitamente l'assistenza necessaria al congiunto (specie se in mancanza di diversa possibilità ed eventualmente anche anticipando, in tutto o in parte, le spese necessarie), di agire nei confronti del danneggiante, a titolo risarcitorio o anche a diverso titolo, in considerazione dell'oggettivo pregiudizio risentito in proprio, anche sul piano patrimoniale.
Nel fornire indicazioni circa la liquidazione del danno che dovrà essere fatta in sede di rinvio, la Corte, oltre a richiamare l’applicazione dei suddetti principi di diritto, ha precisato che la nuova liquidazione potrà avvenire mediante la tecnica del riconoscimento di una rendita vitalizia (da calcolare in base ai principi enunciati in Cass. n. 31574 del 25 ottobre 2022).
Inoltre, dovrà essere consentito all’attrice di fornire la prova dei danni patrimoniali maturati tra il gennaio 2015 (data della sentenza d’appello) e il momento della nuova decisione, cioè di quei danni che non erano ancora maturati al momento del precedente giudizio di rinvio e che, pertanto, non avrebbero potuto essere provati anteriormente.
Infine, in ogni caso, il danno (sia passato che futuro rispetto alla nuova decisione) dovrà calcolarsi operando la detrazione di quanto percepito dall’attrice a titolo di indennità di accompagnamento (ovvero in base ad altro titolo comunque idoneo a determinare il meccanismo della cd. compensatio lucri cum damno, sussistendone i necessari presupposti), per il medesimo periodo per il quale il risarcimento stesso sarà accordato.
In tema di mobbing, la responsabilità esclusiva di altro dipendente, il quale si trovi eventualmente in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, è configurabile solo ai sensi dell'art. 2043 c.c. e non a titolo contrattuale, essendo egli soggetto terzo con riguardo al rapporto di lavoro. Pertanto, la dimostrazione di tale responsabilità deve essere fornita applicando le regole previste per gli illeciti aquiliani, in particolare quelle sulla ripartizione dell'onere della prova, e la relativa azione si prescrive nel termine di cinque anni.
Questa è la conclusione alla quale è giunta la recente ordinanza della Corte di Cassazione (13 novembre 2024, n. 29310). In quel caso, il lavoratore aveva lamentato di aver subito condotte mobbizzanti da parte di una funzionaria che, secondo il ricorrente, avrebbe dovuto essere qualificata come datore di lavoro, in quanto avrebbe posto in essere i comportamenti dannosi in virtù dei poteri propri del datore di lavoro. La Corte territoriale, invece, secondo la prospettiva del lavoratore, aveva erroneamente qualificato la responsabilità per mobbing come aquiliana e non fondata sull’art. 2087 c.c.
La Corte di Cassazione, nel rigettare le censure del ricorrente, ha ricordato, in primo luogo, che l’art. 2087 c.c. si riferisce al datore di lavoro, ossia al soggetto con il quale intercorre il rapporto di lavoro del dipendente.
Il ricorrente, pertanto, - secondo la Suprema Corte - non poteva agire, ai sensi dell'art. 2087 c.c., nei confronti della controricorrente che era una funzionaria della Pubblica Amministrazione e che, quindi, agiva in base al rapporto di immedesimazione organica con l'ente. Al contrario, per la Corte, l'azione contrattuale avrebbe dovuto essere introdotta contro il Ministero della Giustizia, il quale era titolare del rapporto di lavoro.
Già in precedenza la Corte era giunta a simili conclusioni, pur senza enunciarle espressamente, in particolare laddove aveva qualificato la responsabilità del funzionario, in ipotesi di c.d. mobbing orizzontale, come contrattuale (Cass. n. 7097 del 22 marzo 2018 aveva reputato corretta la manleva non in ragione di una responsabilità del lavoratore ex art. 2087 c.c., ma perché lo stesso, con la propria condotta (molestia sessuale nei confronti di altra dipendente) era venuto meno ai doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, quali sono gli obblighi di diligenza e di fedeltà prescritti dagli artt. 2104 e 2105 c.c., e ai principi generali di correttezza e di buona fede di cui di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., letti anche in riferimento al principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione di cui all'art. 97 Cost., la cui osservanza riguarda non solo lo svolgimento della propria attività lavorativa, ma, tra l'altro, i rapporti con l'utenza e con gli altri lavoratori sul luogo di lavoro, così concorrendo a dare luogo ad una situazione che ha determinato la responsabilità ex art. 2087 dell’Amministrazione).
Anche Cass. 1109 del 20 gennaio 2020 aveva affermato che, per potere configurare il mobbing, al comportamento doloso del collega di lavoro deve accompagnarsi quello colposo del datore di lavoro, che, in violazione dell'art. 2087 c.c., non ponga in essere tutte le cautele necessarie ad evitare la nocività del luogo di lavoro in danno alla persona del proprio dipendente.
Il ricorso è stato rigettato in applicazione – con riferimento alla questione qui di interesse - del seguente principio di diritto:
“In tema di mobbing, la responsabilità esclusiva di altro dipendente, il quale si trovi eventualmente in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, è configurabile solo ai sensi dell'art. 2043 c.c. e non a titolo contrattuale, essendo egli soggetto terzo con riguardo al rapporto di lavoro. Ne consegue che la dimostrazione di tale responsabilità dovrà essere fornita applicando le regole previste per gli illeciti aquiliani, in particolare quelle sulla ripartizione dell'onere della prova, e che la relativa azione si prescriverà nel termine di cinque anni”.