La pratica commerciale consistente nel proporre simultaneamente al consumatore un’offerta di finanziamento personale e un’offerta di un prodotto assicurativo non collegato al prestito non costituisce una pratica commerciale aggressiva, né una pratica commerciale sleale.

La Corte di Giustizia, nella sentenza resa nella causa C – 646/22 pubblicata il 14 novembre 2024 (qui il testo integrale) ha escluso che tale pratica debba esse considerata di per sé aggressiva o sleale.

La Compass Banca, con sede in Italia, aveva proposto ai propri clienti, tra il gennaio 2015 e il luglio 2018, la sottoscrizione di diversi finanziamenti personali e prodotti assicurativi che prevedevano la copertura di determinati rischi senza un necessario collegamento con tali finanziamenti. Pur non essendo un presupposto per la concessione del finanziamento, la sottoscrizione di una polizza assicurativa veniva comunque proposta in abbinamento con il prestito.

L’AGCM aveva avviato un procedimento, all’esito del quale aveva reputato pratica commerciale aggressiva, e quindi sleale, ai sensi della direttiva 2005/29, la pratica consistente nell’ “abbinamento forzoso”, al momento della stipula di contratti di finanziamento personale, di prodotti assicurativi non collegati al credito.

La Banca aveva impugnato le decisioni dell’AGCM con ricorso al TAR del Lazio che lo aveva respinto. La Società aveva così proposto appello avverso tale sentenza innanzi al Consiglio di Stato, giudice del rinvio.

La motivazione della Corte di Giustizia approfondisce, in primo luogo, la nozione di consumatore medio.

L’articolo 5, paragrafo 2, della direttiva 2005/29 – ricorda la Corte - fa riferimento a tale nozione al fine di determinare se una pratica commerciale contraria alle norme di diligenza professionale sia tale da produrre un effetto sufficiente a giustificare il suo divieto in quanto pratica commerciale sleale, o se si debba ritenere che essa, in quanto idonea ad indurre in errore soltanto un consumatore molto sprovveduto o ingenuo, sfugga a tale divieto.

Si tratta di una nozione non statica, con la conseguenza che gli organi giurisdizionali e le autorità nazionali devono esercitare la loro facoltà di giudizio, tenendo conto della giurisprudenza della Corte, per determinare la reazione tipica del consumatore medio nella fattispecie. Ne consegue che stabilire quale sia la reazione del consumatore medio rispetto a una determinata prassi commerciale non può essere un’attività puramente teorica, dovendo tener conto anche di considerazioni più attinenti alla realtà purché compatibili con le precisazioni fornite riguardo a tale nozione dal considerando 18 della direttiva 2005/29.

Indubbiamente, secondo detto considerando – prosegue la Corte - il consumatore medio è una persona, da un lato, normalmente informata e, dall’altro, ragionevolmente attenta ed avveduta. Tuttavia, dato che, conformemente all’articolo 7 della direttiva 2005/29, spetta al professionista fornire ai consumatori le informazioni rilevanti di cui questi ultimi hanno bisogno, nella fattispecie concreta, per prendere la loro decisione, tale caratteristica deve essere intesa come riferita alle informazioni che si possono ragionevolmente presumere note ad ogni consumatore, tenendo conto dei pertinenti fattori sociali, culturali e linguistici, e non alle informazioni proprie dell’operazione di cui si tratta.

Pertanto, la definizione del consumatore medio non esclude che la capacità decisionale di un individuo possa essere falsata da limitazioni, quali distorsioni cognitive.

Il giudice di rinvio chiedeva, poi, se la pratica consistente nella presentazione delle offerte commerciali per un contratto di finanziamento e un prodotto assicurativo con la distorsione dell’incorniciamento (fraiming) dovesse essere considerata aggressiva e sleale.

La Corte ha così rammentato che l’articolo 8 della direttiva 2005/29 considera aggressiva una pratica commerciale che, mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica, o indebito condizionamento, limiti o sia idonea a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto e, pertanto, lo induca ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.

Secondo la Corte, una prassi consistente nel presentare simultaneamente ad un consumatore un’offerta di finanziamento personale e un’offerta di un prodotto assicurativo non collegato a tale finanziamento, senza che gli venga lasciato un periodo di riflessione tra la sottoscrizione dei contratti relativi a tali offerte, non implica, di per sé, l’esistenza di atti di pressione, quand’anche tale prassi possa generare una distorsione di incorniciamento. Di conseguenza, una siffatta prassi non può caratterizzare, da sola, un ‘indebito condizionamento’, ai sensi dell’articolo 8 della direttiva 2005/29.

Nel valutare, poi, se la medesima pratica fosse ingannevole ai sensi dell’art. 6 della direttiva, la Corte ha osservato che la presentazione simultanea di due offerte di servizi distinti, quand’anche tali offerte non siano giuridicamente collegate, può richiedere che vengano fornite informazioni supplementari al consumatore, proprio affinché quest’ultimo non sia indotto in errore circa l’assenza di collegamento tra dette offerte.

Nel caso di specie, dall’ordinanza di rinvio, risultava che la presentazione delle due offerte avrebbe potuto indurre un consumatore a credere che non fosse possibile ottenere il finanziamento senza sottoscrivere un prodotto assicurativo di cui trattasi nel procedimento principale, tanto più che taluni rischi relativi al finanziamento erano coperti da tale polizza assicurativa, quali, in particolare, il rischio di deterioramento dello stato di salute che può impedire il rispetto degli obblighi contrattuali relativi al finanziamento.

Tuttavia – si legge nella sentenza - dall’ordinanza di rinvio risultava che la Banca avesse sostenuto di aver debitamente informato i consumatori interessati del fatto che il prodotto assicurativo non fosse collegato al finanziamento personale e di aver consegnato a tali consumatori i documenti pertinenti, anche nell’ambito della fase precontrattuale.

Dunque, secondo la Corte, spetta al giudice del rinvio verificare se la pratica commerciale esaminata possa costituire una pratica commerciale sleale, in quanto ingannevole, ai sensi degli articoli 6 e 7 della direttiva 2005/29, o aggressiva, ai sensi degli articoli 8 e 9 di tale direttiva.

Pertanto – ha concluso la Corte - l’articolo 2, lettera j), l’articolo 5, paragrafi 2 e 5, e gli articoli 8 e 9 della direttiva 2005/29 devono essere interpretati nel senso che la pratica commerciale consistente nel proporre simultaneamente al consumatore un’offerta di finanziamento personale e un’offerta di un prodotto assicurativo non collegato a tale prestito non costituisce né una pratica commerciale in ogni caso aggressiva né una pratica commerciale considerata in ogni caso sleale, ai sensi di tale direttiva.

Era considerata la sentenza storica in materia di climate change litigation, ma ora è stata annullata. La Corte di L’Aia, con decisione del 12 novembre 2024, ha accolto l’appello di Shell contro la sentenza del 2021 con la quale un Tribunale olandese aveva ordinato alla Società petrolifera di ridurre le emissioni di gas serra del 45 % entro il 2030 (qui il testo integrale della sentenza in lingua inglese.).

È indubitabile – si legge nella sentenza – che la protezione dai cambiamenti climatici pericolosi sia un diritto umano. In tutto il mondo è riconosciuto l’obbligo per gli stati di proteggere i propri cittadini dagli effetti negativi e non sorprende che la Corte europea dei diritti dell'uomo abbia ritenuto che “il cambiamento climatico è una delle questioni più urgenti dei nostri tempi”. Spetta in primo luogo ai legislatori e ai governi adottare misure per ridurre al minimo i cambiamenti climatici pericolosi, sebbene le aziende, tra cui Shell, possano avere la responsabilità di adottare misure per contrastare tali cambiamenti climatici.

Nel richiamare anche regolamenti e linee guida (informali e non vincolanti), provenienti da organizzazioni internazionali, la Corte ha precisato che, sebbene le disposizioni (dei trattati) in materia di diritti umani siano principalmente rivolte al governo, ciò non cambia il fatto che esse possano avere un impatto sui rapporti di diritto privato.

La sentenza riconosce l’importanza della questione, sottolineando che “il cambiamento climatico danneggia i diritti tutelati dagli articoli 2 e 8 della CEDU, sia nei Paesi Bassi che all'estero, e li danneggerà ulteriormente” e dando atto del fatto che “il consumo di combustibili fossili è in gran parte responsabile della creazione del problema climatico e che affrontare il cambiamento climatico è qualcosa che non può aspettare. Per combattere il pericolo rappresentato dal cambiamento climatico, tutti hanno una responsabilità. Per adempiere a tale responsabilità, l'attenzione non si concentra esclusivamente sugli Stati. In particolare, le imprese i cui prodotti hanno contribuito alla creazione del problema climatico e che hanno il potere di contribuire a combatterlo sono obbligate a farlo nei confronti degli altri abitanti della terra, anche quando le norme (di diritto pubblico) non le obbligano necessariamente a farlo”.

Aziende come Shell, che contribuiscono in modo significativo al problema climatico e che hanno il potere di contribuire a combatterlo – ha concluso, sul punto, la Corte - hanno l'obbligo di limitare le emissioni di CO2 al fine di contrastare il cambiamento climatico, anche se tale obbligo non è esplicitamente previsto dalle normative (di diritto pubblico) dei paesi in cui l'azienda opera. Tali aziende, dunque, hanno una propria responsabilità nel raggiungimento degli obiettivi dell'Accordo di Parigi.

La Corte ha ritenuto che dall’esame delle fonti scientifiche non si potesse trarre una conclusione sufficientemente univoca in merito alla necessaria riduzione delle emissioni derivanti dalla combustione di petrolio e gas su cui basare un’ordinanza dei tribunali civili nei confronti di una determinata società.

Sebbene, come detto, abbia l’obbligo di ridurre le sue emissioni – prosegue la pronuncia – la Shell non può essere vincolata ad uno standard di riduzione del 45 %, o di qualsiasi altra percentuale, concordato dalla scienza del clima, perché tale percentuale non si applica ad ogni Paese e ad ogni settore separatamente.

La pronuncia è certamente importante e si inserisce nel più ampio scenario europeo in tema di climate change litigation (ne avevamo anche parlato in Cambiamento climatico: il Tribunale di Roma (non) decide e dichiara inammissibile la domanda contro lo Stato italiano).

Se le riduzioni devono essere effettivamente imposte dai governi, e non dai tribunali, l’attuale quadro politico, europeo, ma anche quello che si sta delineando oltreoceano, non danno, allo stato, molte rassicurazioni. Anzi, resta la preoccupazione che la questione non venga affrontata con la serietà, e l’urgenza, che la medesima impone.

La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato da un avvocato che pretendeva il riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato con lo Studio con il quale aveva collaborato per anni e la reintegra sul posto di lavoro (Cass., 4 novembre 2024, 28274).

All’esito dell'istruttoria, la Corte d'appello aveva concluso, in conformità al Tribunale, per la sussistenza di un genuino rapporto di lavoro autonomo nell'ambito di prestazioni a contenuto professionale. La professionista aveva così impugnato la sentenza, ma la Corte ha respinto tutte le tesi difensivi prospettate.

In relazione alla questione attinente alla qualificazione come subordinata dell’attività professionale svolta da un avvocato in uno studio legale di grandi dimensioni, la Cassazione ha preso le mosse dai precedenti di legittimità che hanno affrontato tale tema. In tali occasioni, si era affermato che "la sussistenza o meno della subordinazione deve essere verificata in relazione alla intensità della etero -organizzazione della prestazione, al fine di stabilire se l'organizzazione sia limitata al coordinamento dell'attività del professionista con quella dello studio, oppure ecceda le esigenze di coordinamento per dipendere direttamente e continuativamente dall'interesse dello stesso studio, responsabile nei confronti dei clienti di prestazioni assunte come proprie e non della sola assicurazione di prestazioni altrui". In tali pronunce – ha ricordato la Corte - si è precisato che, trattandosi di prestazioni professionali che per loro natura non richiedono l'esercizio da parte del datore di lavoro di un potere gerarchico concretizzantesi in ordini specifici e nell'esercizio del potere disciplinare, non risultano significativi i criteri distintivi costituiti dall'esercizio dei poteri direttivo e disciplinare e che neppure possono considerarsi sintomatici del vincolo della subordinazione elementi come la fissazione di un orario per lo svolgimento della prestazione o eventuali controlli sull'adempimento della stessa, se non si traducono nell'espressione del potere conformativo sul contenuto della prestazione proprio del datore di lavoro.

Nel caso sottoposto alla Corte, la ricorrente lamentava una asserita erronea applicazione dell'art. 2094 c.c., nella forma della subordinazione attenuata, per avere la Corte d'appello, in contrasto con i precedenti richiamati, dato esclusivo o preminente rilievo all'assenza di potere conformativo (del committente) sul contenuto della prestazione professionale, trascurando o sminuendo il potere di conformazione unilaterale riguardo all'organizzazione e alle modalità esterne di espletamento dell'attività.

Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, secondo la Cassazione, la Corte di merito si era attenuta alle linee direttrici indicate nella giurisprudenza richiamata ed aveva approfonditamente indagato, esaminando il complesso materiale istruttorio, non solo sul potere di conformazione esercitato dal socio o dai soci di riferimento sul contenuto prettamente professionale dell'attività svolta dalla ricorrente, escludendone l'esistenza, ma anche sull'inserimento organico dell'avvocata nello Studio.

In particolare, la Corte territoriale;

  • aveva accertato che la ricorrente, nel corso di oltre tredici anni di durata del rapporto, aveva svolto l’attività di avvocato in modo libero, autonomo e indipendente, pur in presenza di regole necessarie al coordinamento della sua attività con quella dello Studio;
  • sotto il profilo contenutistico dell'attività professionale, aveva valutato la documentazione prodotta dall'appellante (numerose e-mail) e appurato che la stessa non era vincolata dalle determinazioni dei soci dalle quali poteva dissentire; che la ricorrente, nel confronto con i colleghi dello Studio, assumeva iniziative personali ed esprimeva proprie considerazioni sulle questioni trattate; inoltre, che era interpellata personalmente, e a volte anche esclusivamente, sia dai clienti e sia dai procuratori delle controparti;
  • sulla base dei documenti disciplinanti i vari aspetti della vita dello Studio (un'associazione professionale composta da 50 soci e 296 professionisti), aveva ritenuto che questi rispondessero essenzialmente all'esigenza di coordinamento dell'attività dei numerosi professionisti coinvolti;
  • sull'obbligo di esclusiva o condizione di mono committenza, aveva dato atto di come tutti gli incarichi di difesa e assistenza legale fossero acquisiti dallo Studio e da questo distribuiti ai singoli professionisti, i quali avevano un obbligo di esclusiva, nel senso che non potevano gestire una propria clientela collaterale a quella dello Studio, pur potendo proporre nuovi clienti.  La ricorrente era inserita non in un sistema di comando imposto ai professionisti non soci, bensì un insieme organico di regole (per la gestione delle pratiche, per l'utilizzo degli strumenti informatici, per la sicurezza delle informazioni) destinate a fissare alcuni limiti e a tracciare alcune procedure al fine di gestire la complessità connessa al numero di professionisti e alla tipologia di clientela;
  • sull'impegno temporale, aveva escluso che le tempistiche indicate nelle e-mail, in base al tenore delle stesse complessivamente interpretate, fossero espressione di un potere conformativo dello Studio sulla prestazione professionale della ricorrente., rispondendo quelle tempistiche alla necessità, insita nell'attività di avvocato, di rispettare i termini processuali e le cadenze temporali imposte dalle scelte e dalle richieste dei clienti;
  • aveva reputato irrilevante la previsione di un compenso fisso mensile sia per il rilievo pacificamente sussidiario di tale elemento nell'indagine sulla natura subordinata o autonoma di un rapporto, sia per la circostanza secondo la quale gli avvocati, quindi anche la ricorrente, partecipavano a quanto ricavato dalle pratiche relative ai clienti da ciascuno procurati, aspetto quest'ultimo proprio dell'esercizio della libera professione.

In sintesi, secondo la Cassazione, l’accertamento compiuto dai giudici di merito non avrebbe trascurato nessuno degli indici significativi che, complessivamente letti, hanno portato ad escludere l'esercizio di un potere conformativo unilaterale dello Studio sia sul contenuto prettamente professionale dell'attività svolta, sia sulla organizzazione e sulle modalità di espletamento della stessa, sia pure nell'accezione attenuata propria del lavoro intellettuale.

Il ricorso, come detto, è stato rigettato.

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