Nella newsletter del 22 ottobre 2024 il Garante Privacy ha riferito di aver sanzionato per oltre 80 mila euro una Società che eseguiva il backup della posta elettronica dei dipendenti durante il rapporto di lavoro.

Il Garante è intervenuto a seguito del reclamo che era stato presentato da un lavoratore in relazione ad un software utilizzato dalla Società. In particolare, il reclamante aveva rappresentato che, successivamente all’interruzione del rapporto, la Società aveva mantenuto attivo l’account di posta elettronica aziendale, a lui assegnato in costanza del rapporto, accedendo al contenuto di tutta la corrispondenza in transito che, infatti, era stata prodotta nel corso di un giudizio successivamente instaurato.

Secondo il Garante, le operazioni di trattamento realizzate per mezzo del software (quali la raccolta, la conservazione, la consultazione), che avevano consentito di ricostruire l’attività del lavoratore, risultano in contrasto con i principi di liceità, di minimizzazione dei dati e di limitazione della conservazione (art. 5, par. 1, lett. a), c) ed e) del Regolamento).

Infatti, in base alla disciplina posta in materia di protezione dei dati personali, nell’ambito di rapporti di lavoro/collaborazione, il titolare può trattare lecitamente i dati personali, di regola, solo se il trattamento è necessario per la gestione del rapporto stesso oppure se è necessario per adempiere a specifici obblighi o compiti posti dalle discipline di settore applicabili (art. 6, par. 1, lett. a) e c) del Regolamento, con riferimento ai dati c.d. comuni), e, comunque, può riguardare solo i dati adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattate e per un arco di tempo non superiore al conseguimento delle finalità per le quali sono trattati.

Nel caso di specie, invece, la sistematica conservazione delle e-mail, effettuata per un considerevole periodo di tempo (pari a tre anni successivi alla cessazione del rapporto), nonché la sistematica conservazione dei log di accesso alla posta elettronica e al gestionale utilizzato dai lavoratori, sono stati reputati non conformi alla disciplina di protezione dei dati, in quanto non proporzionata e necessaria al conseguimento delle dichiarate finalità di sicurezza della rete informatica e di continuità dell’attività aziendale.

Sotto un altro profilo, il Garante ha sottolineato che il trattamento che il datore di lavoro effettua sui dati contenuti nelle caselle di posta elettronica (ad esempio a seguito della conservazione delle e-mail ricevute e inviate durante l’attività lavorativa) assegnate ai propri dipendenti è idoneo a consentire un’attività di controllo sull’attività dei lavoratori in violazione di quanto previsto dall’art. 4 della legge n. 300 del 20/05/1970, norma richiamata dall’art. 114 del Codice Privacy.
In base a tale norma, infatti, il rispetto della disposizione di cui all’art. 4 della citata legge n. 300/1970 costituisce condizione di liceità dei trattamenti di dati personali effettuati in ambito lavorativo, in quanto è una delle norme del diritto nazionale “più specifiche per assicurare la protezione dei diritti e delle libertà con riguardo al trattamento dei dati personali dei dipendenti nell’ambito dei rapporti di lavoro” individuate dall’art. 88 del Regolamento (cfr. artt. 5, par. 1, lett. a) e 88 del Regolamento).

Con riferimento ai profili di violazione dell’art. 114 del Codice, secondo il Garante, il software utilizzato dalla Società reclamata (fino alla dichiarata sospensione del suo utilizzo), proprio per le sue caratteristiche (così come descritte dalla parte e vista l’informativa rilasciata ai lavoratori), sarebbe stato idoneo a realizzare un controllo dell’attività lavorativa.

In particolare, la Società, attraverso il citato software, aveva effettuato trattamenti idonei a ricostruire minuziosamente, anche a distanza di tempo, l’attività dei dipendenti, sia attraverso le comunicazioni scambiate via e-mail, sia attraverso i log del gestionale utilizzato per svolgere l’attività lavorativa.

Qui è consultabile la newsletter.

La particolare attività di volantinaggio costituita dall’ ‘uomo sandwich’, per la durata dell’esposizione, impositiva della costante vista del materiale sindacale per l’arco temporale dell’intera prestazione lavorativa, può costituire fonte di distrazione costante e dunque recare pregiudizio all’ordinario svolgimento della vita ed attività aziendale. Pertanto, l’attività di proselitismo sindacale in tal modo svolta è illegittima.

Questo è quanto ha statuito la Corte di Cassazione in una recente ordinanza (n. 2459/2024).

La Corte d’appello aveva rigettato il ricorso proposto dal lavoratore avverso la decisione con la quale il Tribunale aveva ritenuto infondata la domanda dallo stesso proposta, diretta all’accertamento della illegittimità della sanzione inflitta dalla datrice di lavoro, consistente in otto giorni di sospensione dal servizio e dalla retribuzione. Al lavoratore era stato addebitato l’aver tenuto attaccati al petto ed alla schiena due fogli riproducenti un volantino sindacale, durante un’intera giornata. La Corte di merito aveva ritenuto che tale manifestazione non rientrasse nel libero esercizio dell’attività sindacale, anche in considerazione della circostanza che il lavoratore non aveva mai rivestito alcun ruolo sindacale e che il comportamento in questione non potesse essere qualificato come attività di volantinaggio o affissione, in quanto effettuato fuori dagli spazi consentiti. La Corte, valutando quindi illegittimo il comportamento, aveva ritenuto proporzionata la sanzione.

Avverso detta decisione il lavoratore aveva proposto ricorso.

La Cassazione è giunta alla conclusione sopra riportata rammentando, in primo luogo, nel solco di quanto affermato già in precedenti occasioni, che l’attività di proselitismo sindacale nei luoghi di lavoro incontra i limiti previsti dall’art. 26, comma 1, della l. n. 300 del 1970, e pertanto si deve ritenere consentita soltanto se effettuata senza pregiudizio per il normale svolgimento dell’attività aziendale, alla luce delle concrete modalità organizzative dell’impresa e del tipo di lavoro cui sono addetti i destinatari delle comunicazioni (Cass. n. 35643/2022; Cass. n. 5089/86). In particolare è stato affermato che, pur non essendovi alcun divieto di svolgere tale attività durante l’orario di lavoro, occorre non solo che essa sia compiuta da lavoratori in regolare permesso (quali i dirigenti della R.S.A.), ma anche che, per le modalità e le cautele in concreto adottate ed avuto riguardo alle caratteristiche organizzative dell’impresa e del tipo di lavoro cui siano addetti i destinatari, risulti di fatto non pregiudicato l’ordinario svolgimento della vita aziendale, sotto il normale profilo funzionale e produttivo.

Nel caso in esame il giudice d’appello, riaffermando i principi che consentono a tutti i lavoratori lo svolgimento di attività sindacale nelle modalità consentite dalla contrattazione collettiva, aveva individuato nella attività di proselitismo svolta dall’ ‘uomo sandwich’ un comportamento estraneo alle pattuizioni sociali in proposito realizzate.

Occupandosi degli obblighi datoriali circa il concreto svolgimento dell’attività di proselitismo sindacale, la Corte aveva già in precedenza statuito che l’art 25 della legge n. 300/70, nel disporre che “le rappresentanze sindacali aziendali hanno diritto di affiggere, su appositi spazi e che il datore di lavoro ha l’obbligo di predisporre in luoghi accessibili a tutti i lavoratori all’interno dell’unità produttiva, pubblicazioni, testi e comunicati inerenti a materie di interesse sindacale e del lavoro”, ha individuato, in linea con le condizioni comunicative all’epoca esistenti, una delle forme attraverso cui garantire lo svolgimento dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro (cfr. Cass n. 35643/2022),.

Con riferimento al particolare “volantinaggio elettronico” , quale forma evolutiva dell’originario volantinaggio cartaceo, la medesima Corte aveva chiarito che l’obbligo datoriale sancito dall’art. 26 della legge n. 300/70, secondo cui “I lavoratori hanno diritto di raccogliere contributi e di svolgere opera di proselitismo per le loro organizzazioni sindacali all’interno dei luoghi di lavoro, senza pregiudizio del normale svolgimento dell’attività aziendale”, è soddisfatto quando lo stesso mette a disposizione di ognuna delle rappresentanze sindacali aziendali un determinato idoneo spazio all’interno dell’unità produttiva, sicché non può ritenersi antisindacale il comportamento del datore di lavoro che, senza manomettere il materiale affisso sulle bacheche già installate, si limiti a spostare queste ultime in luoghi ugualmente idonei; né può ritenersi acquisito da parte delle rappresentanze sindacali il diritto all’affissione in un determinato luogo neanche nel caso in cui l’originaria collocazione fosse stata preventivamente concordata, e non può fondatamente parlarsi di detenzione qualificata delle bacheche (Cass. n. 1199/2000).

I principi richiamati – secondo la Corte - individuano gli esatti limiti in cui intendere legittima l’opera di proselitismo sindacale e legittimo l’esercizio del diritto in tal senso, in quanto rispettoso degli “spazi” comunicativi messi a disposizione dal datore di lavoro, in adempimento degli obblighi imposti dal legislatore, anche concordati pattiziamente, e comunque tali da non recare pregiudizio all’ordinario svolgimento della vita aziendale, sotto il normale profilo funzionale e produttivo.

Nella vicenda di specie, la Corte di merito, proprio in riferimento a tale ultima condizione, aveva ritenuto che la particolare attività di volantinaggio attraverso ‘l’uomo sandwich’ esulasse dai limiti imposti dall’art. 26 richiamato, in quanto fonte di costante distrazione rispetto all’attività lavorativa. Tale valutazione, comunque espressione di un giudizio di merito non sindacabile in sede di legittimità, è stata reputata dalla Cassazione rispettosa del disposto legislativo e della lettura allo stesso data in sede di diritto vivente, necessariamente sollecitato a rapportare il dettato normativo a fattispecie concrete.

L’art. 2048 c.c. prevede una responsabilità diretta per fatto (anche) proprio dei genitori che concorre con quella del minore (Cass. n. 4303 del 13 febbraio 2023 e Cass. n. 22541 del 10 settembre 2019) per non aver impedito il fatto dannoso, con idoneo comportamento, educativo e di sorveglianza, rapportato alle esigenze e al carattere del minore.

La Corte di Cassazione, nella recente ordinanza del 18 ottobre 2024, n. 27061, ha richiamato tale principio - già condiviso dalla giurisprudenza di legittimità più recente – nell’ambito di una vicenda che prendeva le mosse dalla domanda risarcitoria avanzata da una donna nei confronti dei genitori di un bambino che, mentre giocava a pallone, l’aveva urtata facendola cadere a terra.

Il Tribunale aveva accolto la domanda, condannando i genitori al risarcimento dei danni per oltre undicimila euro. La Corte d’appello, adita dai genitori, aveva rigettato l’impugnazione con sentenza poi sottoposta all’esame della Cassazione.

In particolare, i ricorrenti avevano lamentato, da un lato, la violazione del combinato disposto degli artt. 116 c.p.c. e 2048 c.c., per avere i giudici d’appello condiviso la valutazione delle prove offerta dal Tribunale, così confermando la responsabilità dei genitori del minore sulla base di una interpretazione errata dell’art. 2048 c.c.. con riguardo alla prova liberatoria; e, dall’altro, la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. per aver i giudici di merito omesso di prendere in considerazione tutte le circostanze e, segnatamente, le risultanze dell’istruttoria testimoniale.

La Suprema Corte ha reputato entrambi i motivi inammissibili in quanto richiedevano un riesame complessivo della valutazione delle prove effettuata dal giudice di merito.

Dopo aver richiamato il principio sopra anticipato, la Corte ha ritenuto che i giudici di merito avessero adottato una motivazione del tutto conforme in punto di fatto e che il ricorso non offriva alcuna diversa ricostruzione fattuale che non fosse già stata scrutinata.

In ordine alla valutazione delle prove, la censura è stata ritenuta inammissibile poiché, secondo la Corte,  per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 116 c.p.c., è necessario considerare che, poiché esso prescrive come regola di valutazione delle prove quella secondo cui il giudice deve valutarle secondo prudente apprezzamento, a meno che la legge non disponga altrimenti, la sua violazione e, quindi, la deduzione in sede di ricorso per cassazione (peraltro, e più correttamente ai sensi del n. 4 dell’art. 360 c.p.c.) è concepibile solo:

a) se il giudice di merito valuta una determinata prova ed in genere una risultanza probatoria, per la quale l'ordinamento non prevede uno specifico criterio di valutazione diverso dal suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore ovvero il valore che il legislatore attribuisce ad una diversa risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale);

b) se il giudice di merito dichiara di valutare secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza soggetta ad altra regola, così falsamente applicando e, quindi, violando la norma in discorso (oltre che quelle che presiedono alla valutazione secondo diverso criterio della prova di cui trattasi).

Il ricorso è stato così dichiarato inammissibile.

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