In tema di licenziamento, costituisce discriminazione indiretta, secondo il diritto dell'Unione, l'applicazione dell'ordinario periodo di comporto previsto per il lavoratore non disabile al lavoratore che si trovi in condizione di disabilità perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio, apparentemente neutro, del computo dello stesso periodo di comporto in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione particolare svantaggio.
Questo è quanto ha sottolineato la Corte di cassazione in una recente ordinanza (n. 170 del 7 gennaio 2025), nel solco della giurisprudenza di legittimità, inaugurata da Cass. n. 9095 del 2023 e successivamente ribadita e precisata, oltre che da Cass. n. 11731 del 2024, da Cass. n. 14316 e 14402 del 2024, confermate poi da Cass. n. 15282 del 2024 e Cass. n. 15723 del 2024 e, ancor più di recente, da Cass. n. 24052 e n. 30095 del 2024.
La conoscenza dello stato di disabilità del lavoratore, o la possibilità di conoscerlo secondo l'ordinaria diligenza da parte del datore di lavoro – precisa la Corte - fa sorgere l’onere datoriale, a cui non può corrispondere un comportamento ostruzionistico del lavoratore, di acquisire, prima di procedere al licenziamento, informazioni circa l'eventualità che le assenze per malattia del dipendente siano connesse allo stato di disabilità, al fine di individuare possibili accorgimenti ragionevoli imposti dall'art. 3, comma 3-bis, d. lgs. n. 216 del 2003, “la cui adozione presuppone l'interlocuzione ed il confronto tra le parti, che costituiscono una fase ineludibile della fattispecie complessa del licenziamento de quo”.
La Corte ha poi richiamato l’esigenza che la contrattazione collettiva, in modo esplicito, disciplini la questione del comporto per i lavoratori disabili avendo riguardo alla condizione soggettiva, non risultando di per sé sufficiente il rilievo dato alle ipotesi di assenze determinate da particolari patologie o connotate da una certa gravità.
Nel caso di specie, secondo la Cassazione, la Corte territoriale, nel respingere la domanda di impugnativa del licenziamento, aveva accertato che la società era a conoscenza della condizione di disabilità del lavoratore e il licenziamento per superamento del periodo di comporto (il medesimo previsto anche per le persone prive di disabilità) era stato intimato senza procedere ad acquisire informazioni circa la correlazione tra assenze per malattia del dipendente e stato personale di disabilità.
Pertanto, il ricorso del lavoratore è stato accolto e la sentenza cassata con rinvio alla Corte d’appello in diversa composizione. In relazione a questo argomento si richiama anche Licenziamento per superamento del comporto e discriminazione del lavoratore portatore di handicap: quali oneri a carico del datore di lavoro?
In tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del lavoratore, è ravvisabile la violazione dell'art. 2087 c.c. nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno, fonte di danno alla salute dei lavoratori, ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprire gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi.
La Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in relazione alla responsabilità del datore di lavoro che non si adopera per risolvere le conflittualità tra lavoratori (ord. n. 123 del 4 gennaio 2025).
Nel solco di quanto aveva già sottolineato in recenti pronunce (da ultimo, Cass. n. 15957 del 7 giugno 2024; Cass. n. 3822 del 12 febbraio 2024; Cass. n. 4664 del 21 febbraio 2024), la Corte ha precisato che “un ambiente lavorativo stressogeno è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell'art. 2087 c.c.”.
Nella vicenda affrontata dalla Corte, per quanto rileva ai fini della questione qui in esame, la sentenza di appello aveva accertato, tra le altre cose, una responsabilità della parte datoriale per straining. L’azienda aveva così impugnato la decisione, deducendo la violazione dell’art. 2087 c.c. La Cassazione ha respinto la censura ritenendo che la Corte territoriale avesse ben valutato, con accertamento di fatto non sindacabile in quella sede, la ricorrenza, nel caso di specie, di una situazione stressogena in relazione ai fatti analiticamente dettagliati nella sentenza.
La pronuncia, secondo la Cassazione, era in linea con i principi sopra richiamati e, dunque, la critica della ricorrente è stata reputata infondata.
In argomento, si rinvia anche a Mobbing e straining: quali sono i presupposti per il risarcimento?, nonchéPuò una sola condotta mobbizzante del datore dare diritto al risarcimento del danno?
L’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 85/374 in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi deve essere interpretato nel senso che il fornitore di un prodotto difettoso deve essere considerato una “persona che si presenta come produttore” di detto prodotto, ai sensi di tale disposizione, qualora tale fornitore non abbia materialmente apposto il suo nome, marchio o altro segno distintivo su siffatto prodotto, ma il marchio che il produttore ha apposto su quest’ultimo coincida, da un lato, con il nome di tale fornitore o con un elemento distintivo di quest’ultimo e, dall’altro, con il nome del produttore.
Questa è l’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella sentenza del 19 dicembre 2024 (causa C-157/23).
La domanda era stata presentata nell’ambito di una controversia sorta in relazione alla responsabilità della Società produttrice a seguito di un sinistro automobilistico subito da un consumatore mentre guidava un veicolo acquistato presso un’altra Società.
In relazione al contesto normativo, la Corte ha richiamatoil quarto e il quinto considerando della direttiva 85/374 secondo i quali “ai fini della protezione del consumatore è necessario considerare responsabili tutti i partecipanti al processo produttivo se il prodotto finito o la parte componente o la materia prima da essi fornita sono difettosi; (…) per lo stesso motivo è necessario che sia impegnata la responsabilità dell’importatore che introduca prodotti nella Comunità europea e quella di chiunque si presenti come produttore apponendo il suo nome, marchio o altro segno distintivo o fornisca un prodotto il cui produttore non possa essere identificato” e che “se dello stesso danno sono responsabili più persone, la protezione del consumatore implica che il danneggiato possa chiedere il risarcimento integrale del danno ad uno qualsiasi dei responsabili”.
L’articolo 1 della direttiva, poi, dispone che il produttore è responsabile del danno causato da un difetto del suo prodotto, mentre l’articolo 3 è così formulato: “1. Il termine “produttore” designa il fabbricante di un prodotto finito, il produttore di una materia prima o il fabbricante di una parte componente, nonché ogni persona che, apponendo il proprio nome, […] marchio o altro segno distintivo sul prodotto, si presenta come produttore dello stesso. 2. Senza pregiudizio della responsabilità del produttore, chiunque importi un prodotto nella Comunità europea ai fini della vendita, della locazione, del “leasing” o di qualsiasi altra forma di distribuzione nell’ambito della sua attività commerciale, è considerato produttore del medesimo ai sensi della presente direttiva ed è responsabile allo stesso titolo del produttore. 3. Quando non può essere individuato il produttore del prodotto si considera tale ogni fornitore a meno che quest’ultimo comunichi al danneggiato, entro un termine ragionevole, l’identità del produttore o della persona che gli ha fornito il prodotto. Le stesse disposizioni si applicano ad un prodotto importato, qualora questo non rechi il nome dell’importatore di cui al paragrafo 2, anche se è indicato il nome del produttore”.
Ai sensi dell’articolo 5 della medesima direttiva, poi, “se, in applicazione della presente direttiva, più persone sono responsabili dello stesso danno, esse rispondono in solido, fatte salve le disposizioni nazionali in materia di diritto di rivalsa”.
Richiamato, poi, il diritto nazionale (italiano), e, in particolare, il d. p. R. n. 22/88 attuativo della direttiva, la Corte ha rammentato che, nella vicenda di specie, il consumatore aveva acquistato l’autovettura difettosa, prodotta dalla Società con sede in Germania, dalla concessionaria con sede in Italia che distribuiva i veicoli con il marchio della ‘produttrice’ tramite la Società italiana appartenente al medesimo gruppo societario.
In occasione di un sinistro automobilistico, un airbag in dotazione del veicolo in questione non aveva funzionato e, dunque, il consumatore aveva proposto ricorso nei confronti delle due Società con sede in Italia.
Il giudice di rinvio aveva chiesto, in sostanza, se l’estensione della responsabilità del produttore al fornitore sia limitata al caso in cui l’“apposizione” prevista dalla disposizione richiamata consista, per il fornitore, nell’imprimere materialmente il suo nome, marchio o altro segno distintivo sul prodotto, con l’intenzione di sfruttare una confusione tra la sua identità e quella del produttore, o se tale estensione sia applicabile anche qualora esista una semplice coincidenza dei dati identificativi, come avverrebbe nel caso di specie.
La Corte ha rammentato che le persone contro le quali il consumatore ha il diritto di intentare un’azione in base al regime di responsabilità previsto dalla direttiva 85/374 sono enumerate agli articoli 1 e 3 di quest’ultima con una enumerazione che deve considerarsi tassativa.
Sebbene, in forza dell’articolo 1 della direttiva 85/374, il legislatore dell’Unione abbia scelto di imputare, in linea di principio, al produttore la responsabilità per i danni causati dai suoi prodotti difettosi, l’articolo 3 di tale direttiva – prosegue la Corte - designa, tra gli operatori che hanno partecipato ai processi di fabbricazione e di commercializzazione del prodotto in questione, quelli che possono parimenti doversi assumere la responsabilità istituita da detta direttiva.
Dal tenore chiaro e inequivocabile di tale articolo 3, paragrafo 1, secondo la Corte, risulta che la partecipazione della persona che si presenta come produttore al processo di fabbricazione del prodotto non è necessaria affinché quest’ultima sia qualificata come “produttore”, ai sensi di detta disposizione. Pertanto, una persona come, nel caso di specie, la ricorrente nel procedimento principale, che non fabbrica veicoli, ma che si limita ad acquistarli dal loro fabbricante per distribuirli in un altro Stato membro, può essere considerata “produttore”, ai sensi dell’articolo 1 della direttiva 85/374, se, conformemente all’articolo 3, paragrafo 1, di detta direttiva, si è presentata come tale avendo apposto sul veicolo in questione il proprio nome, marchio o altro segno distintivo. Infatti, “apponendo sul prodotto in questione il proprio nome, marchio o altro segno distintivo, la persona che si presenta come produttore dà l’impressione di essere implicata nel processo di produzione o di assumerne la responsabilità. Pertanto, l’utilizzo di tali menzioni equivale, per detta persona, ad utilizzare la sua notorietà al fine di rendere tale prodotto più attraente agli occhi dei consumatori, ciò che giustifica che, in cambio, la sua responsabilità possa sorgere a titolo di tale utilizzo”.
La Corte ha poi verificato se il fatto che il marchio corrisponda anche a un elemento distintivo del nome di tale distributore sia sufficiente affinché quest’ultimo possa essere qualificato come “persona che si presenta come produttore”.
Secondo la Corte, quando un soggetto fornisce un prodotto è indifferente che abbia materialmente apposto una menzione del proprio nome o altro segno distintivo o che il suo nome contenga la menzione che è stata apposta su di esso dal fabbricante e che corrisponde al nome di quest’ultimo. Infatti, in entrambe le ipotesi, “il fornitore sfrutta la coincidenza tra la menzione di cui trattasi e la propria denominazione sociale per presentarsi al consumatore come responsabile della qualità del prodotto e suscitare in tale consumatore una fiducia paragonabile a quella che questi nutrirebbe se il prodotto fosse venduto direttamente dal suo produttore. In entrambi i casi il fornitore deve quindi essere considerato una persona che «si presenta come produttore», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 85/374”.
Va poi rammentato che il legislatore dell’Unione ha adottato un’accezione ampia della nozione di produttore al fine di tutelare il consumatore. Infatti, dal quarto considerando della direttiva 85/374, emerge che il legislatore dell’Unione ha tenuto conto del fatto che la tutela del consumatore esige che la responsabilità di “chiunque” si presenti come produttore apponendo il suo nome, marchio o qualsiasi altro segno distintivo sul prodotto sussista allo stesso titolo della responsabilità del “vero” produttore. Ne consegue che l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 85/374 ha lo scopo di facilitare l’onere di dover determinare il vero produttore del prodotto difettoso.
Si rammenta che lo scorso 18 novembre 2024 è stata pubblicata sulla Gazzetta dell’Unione Europea la direttiva 2024/2853 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2024, sulla responsabilità per danno da prodotti difettosi, che ha abrogato la direttiva 85/374/CEE (qui un approfondimento Le nuove norme europee sulla responsabilità per danno da prodotto difettoso). Con specifico riferimento alla questione oggetto di questo commento, si segnala che l’art. 4, n. 10 b) della direttiva 2024/2853 definisce, tra l’altro, il fabbricante come colui che “fa progettare o fabbricare un prodotto o che, apponendo il proprio nome, marchio o altre caratteristiche distintive su tale prodotto, si presenta come fabbricante”, stabilendo, poi, all’art. 8, co. 1° lett. a) che “Gli Stati membri provvedono affinché…il fabbricante di un prodotto difettoso” sia tra i soggetti responsabili del danno a norma della direttiva stessa.