In caso di cessazione dell’attività dell’azienda, quando il datore può licenziare legittimamente la lavoratrice madre?

La Corte di Cassazione ha affrontato la questione in una recente ordinanza (19 dicembre 2024, n. 33298).

La Corte d’appello aveva rigettato il gravame proposto da una lavoratrice avverso la sentenza del Tribunale che aveva respinto la domanda di impugnativa del licenziamento intimatole per cessazione dell'attività aziendale nonostante ella si trovasse in condizione di gravidanza.

La lavoratrice aveva impugnato la sentenza di secondo grado con ricorso rigettato dalla Corte.

Secondo la tesi sostenuta dalla ricorrente, per poter procedere al licenziamento della lavoratrice madre, in base all'ipotesi eccettuativa consentita dall'art. 54, co. 3 lett. b) decreto legislativo n. 151 del 2001, occorrerebbe la certezza che la società datrice di lavoro sia stata cancellata dal registro delle imprese.

Si tratta di una tesi che, secondo la Cassazione, non può essere accolta. La legge – si legge nella pronuncia - prescrive soltanto che esista la cessazione dell'attività dell'azienda cui la lavoratrice è addetta e tale requisito “va riferito alla conclusione concreta dell'attività operativa aziendale, non già all'estinzione dell'impresa o della società che si consegue in effetti solo con la successiva cancellazione dal registro delle imprese”.

Pertanto, secondo la Cassazione, ai fini della questione in esame, non rileva se la società datrice di lavoro sia ancora iscritta o meno al registro dell'imprese. Ciò che interessa, piuttosto, è l'aspetto sostanziale della reale ed effettiva cessazione dell'attività a tal punto che – aggiunge la Corte - se la cessazione non è stata effettiva o venga ripresa dopo poco tempo dal licenziamento, questo comporterà la carenza della ragione addotta e la nullità del licenziamento per violazione del divieto legale.

Nella vicenda di specie, secondo la Cassazione, era risultato provato il contrario, ossia il venir meno di qualsiasi attività di impresa riferita alle due unità locali presso le quali era assegnata la ricorrente prima del licenziamento della medesima.

In relazione all'art. 2087 c.c., l'onere di allegazione dell'inadempimento a carico del lavoratore consiste non già nella individuazione della misura di prevenzione violata bensì nella indicazione della presenza nell'ambiente di lavoro di uno o più fattori di rischio per la sua salute, circostanziati in ragione delle modalità della prestazione lavorativa; assolto tale onere di allegazione e di prova e dimostrata, altresì, la dipendenza della malattia dai suddetti elementi di rischio, compete, invece, al datore di lavoro, al fine di dimostrare la assenza di colpa, allegare e provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad evitare il danno, non solo prescritte da specifiche norme ma anche suggerite dalle conoscenze scientifiche al momento disponibili.

Con tali assunti la Cassazione (ordinanza n. 33307 del 19 dicembre 2024) è tornata a pronunciarsi in tema di distribuzione degli onesi di allegazione e di prova in ipotesi di pretese risarcitorie fondate sulla presunta violazione dell’art. 2087 c.c.

La Corte di secondo grado aveva accolto in parte l'appello proposto dall’erede di un lavoratore nei confronti dell’ex datore di lavoro e, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, aveva accertato che il de cuius fosse stato affetto da infermità e lesioni dipendenti da fatti di servizio, con conseguente diritto alla pensione privilegiata, all'equo indennizzo e a ogni altro beneficio economico e previdenziale connesso a tali infermità.

La Corte territoriale, al contrario, aveva ritenuto che non fosse stata fornita prova adeguata di una condotta omissiva della datrice atta a fondare una sua responsabilità, ai sensi dell'art. 2087 o dell'art. 2043 c.c., in ordine all'insorgere della patologia che aveva causato il decesso del lavoratore; aveva invece riconosciuto esistenti i requisiti per l'equo indennizzo e la pensione privilegiata.

L’erede del lavoratore aveva così impugnato la pronuncia di secondo grado con ricorso accolto dalla Cassazione.

La Corte ha richiamato, in primo luogo, il proprio orientamento secondo il quale “il nesso causale rilevante ai fini del riconoscimento dell'equo indennizzo per la causa di servizio è identico a quello da provare ai fini della condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, quando si faccia riferimento alla medesima prestazione lavorativa e al medesimo evento dannoso (v. Cass. n. 6008 del 2023; n. 34968 del 2022; n. 23187 del 2022)”. Infatti, l'autonomia dei due istituti, dell'equo indennizzo e del risarcimento del danno procurato da malattia professionale, non esclude che si possa realizzare una vasta area di coincidenza del nesso causale della patologia, sia ai fini dell'equo indennizzo che della malattia.

Una volta che sia stata accertata in sede di equo indennizzo la derivazione causale della patologia dall'ambiente di lavoro, “opera a favore del lavoratore l'inversione della prova prevista dall'art. 2087 c.c., di modo che grava sul datore di lavoro l'onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell'evento dannoso”. Sulla medesima parte graverà la conseguenza del mancato puntuale adempimento dell'onere probatorio. In sostanza – ha precisato la Suprema Corte - l'inadempimento, il cui onere di allegazione fa carico al lavoratore, consiste nella presenza nell'ambiente di lavoro di un fattore morbigeno o di un elemento di pericolo per la sua integrità psicofisica, che in sé costituisce violazione dell'obbligo di protezione di cui all'articolo 2087 c.c.

Quest’ultima disposizione – rammenta la Corte - pone un generale obbligo di tutela dell'integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, senza ulteriori specificazioni in merito alle condotte omissive e commissive destinate a sostanziarlo; di conseguenza, “l'onere di allegazione del lavoratore non può estendersi fino a comprendere anche l'individuazione delle specifiche norme di cautela violate, come preteso dalla Corte di merito, specie ove non si tratti di misure tipiche o nominate ma di casi in cui molteplici e differenti possono essere le modalità di conformazione del luogo di lavoro ai requisiti di sicurezza”.

Tale conclusione – si legge nella pronuncia - poggia anche sul rilievo che, sul piano processuale, l'onere della prova è normalmente modulato in corrispondenza con quello dell'allegazione (cfr. Cass. n. 5592 del 2016, in tema di obbligo di repêchage e giurisprudenza ivi citata). Pretendere dal lavoratore la specificazione della misura di sicurezza violata, comporterebbe, in coerenza con il principio del contraddittorio e del diritto difesa, “la limitazione dell'onere probatorio del datore di lavoro all'adempimento della specifica condotta indicata come omessa e non anche di tutte le altre non specificate, determinandosi, in caso diverso, una insanabile aporia tra l'area dei fatti in contestazione fissata dall'attore e quella dei fatti da provare, che resterebbe individuata soltanto al momento della decisione del giudice sulla responsabilità del datore di lavoro”.

Secondo la Cassazione, nel caso di specie, la Corte territoriale non si era conformata a tali principi di diritto poiché, pur avendo accertato, ai fini della causa di servizio, l'esistenza del nesso causale tra la nocività dell'ambiente di lavoro e la patologia che aveva provocato il decesso del lavoratore, aveva addossato sull’erede l'onere di allegazione e di prova dell'inadempimento datoriale attraverso l'individuazione di specifici obblighi di comportamento “concretamente individuati”.

Il ricorso è stato accolto e la sentenza cassata con rinvio alla Corte d’appello in diversa composizione.

L’Autorità garante della concorrenza non deve dimostrare l’esistenza di effetti restrittivi concreti sulla concorrenza, potendo limitarsi ad accertare che vi siano effetti restrittivi potenziali, sufficientemente sensibili, sulla concorrenza.

La Corte di Giustizia dell’UE, nella causa C‑606/23, si è espressa in questo senso (sentenza del 5 dicembre 2024), pronunciandosi in relazione alla questione concernente l’interpretazione dell’art. 101, par. 1, TFUE.

Secondo la Corte, “L’articolo 101, paragrafo 1, TFUE deve essere interpretato nel senso che esso non impone all’autorità garante della concorrenza di uno Stato membro di dimostrare l’esistenza di effetti restrittivi concreti e reali sulla concorrenza, all’atto di valutare se un accordo che prevede limitazioni della garanzia sulle automobili, atte a obbligare o incentivare i proprietari delle automobili a farle riparare e a farne effettuare la manutenzione unicamente presso i rappresentanti autorizzati del costruttore automobilistico, nonché a utilizzare i pezzi di ricambio originali del costruttore automobilistico per la loro manutenzione periodica affinché la garanzia automobilistica resti valida, possa essere qualificato come restrizione della concorrenza ai sensi di tale disposizione. È sufficiente che tale autorità accerti, conformemente alla disposizione suddetta, l’esistenza di effetti restrittivi potenziali sulla concorrenza, purché siano sufficientemente sensibili”.

Ecco il testo della pronuncia

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