Nella seduta delll’11 dicembre 2024, il Senato ha approvato il disegno di legge n. 1264 recante disposizioni in materia di lavoro.
Tra le principali novità in tema di rapporto di lavoro subordinato, si segnalano, in particolare, le seguenti disposizioni:
Qui il testo integrale del disegno di legge.
Sul datore di lavoro incombono obblighi di protezione nei confronti di terzi? La Corte di Cassazione, Sez. III, ha affrontato tale questione in una recente pronuncia resa nell’ambito di una vicenda forse (e per fortuna) insolita (Cass., ord., 12 dicembre 2024, n. 32072).
Una infermiera era stata vittima di violenza sessuale da parte di un soggetto ricoverato presso la struttura dove la medesima lavorava. Il marito della vittima aveva citato in giudizio la Fondazione proprietaria dell’ospedale accusandola di non aver predisposto idonee misure di sicurezza volte ad impedire la violenza sessuale ai danni della moglie, e chiedendo il risarcimento dei danni personali derivati dalla sofferenza patita dalla moglie. Il Tribunale aveva accolto la domanda sul presupposto che il datore di lavoro avrebbe dovuto predisporre adeguate misure di prevenzione del comportamento doloso del paziente, ed aveva così riconosciuto un risarcimento al marito, nonché il diritto dell’Inail, intervenuto in giudizio, di recuperare dalla Fondazione le somme corrisposte alla donna a titolo di infortunio sul lavoro.
La Corte d’Appello aveva però riformato tale decisione ritenendo che l’attore non avesse adempiuto l’onere di dimostrare che era obbligo della casa di cura predisporre misure idonee a prevenire il danno, in quanto prevedibile, e di indicare quali fossero tali misure.
Il marito aveva così proposto ricorso per cassazione. Il ricorrente aveva lamentato, in particolare, che la Corte non avesse tenuto conto del fatto che, oltre che agli obblighi di prevenzione di cui all’art. 2087 c.c., il datore di lavoro sarebbe soggetto anche alle cautele generiche, imposte dalle circostanze concrete, necessarie ad evitare il danno.
La Cassazione ha reputato le censure infondate sostenendo, in particolare, che, nei giudizi di merito, era stata trascurata la circostanza che chi agiva in giudizio era il marito della lavoratrice per un danno proprio, e, dunque, un danneggiato che non era parte del contratto con il datore di lavoro.
Tuttavia – rammenta la Cassazione – la responsabilità contrattuale del datore di lavoro, per violazione degli obblighi di sicurezza sui luoghi di lavoro, è predicabile nei soli confronti del lavoratore, “poiché costui è parte del contratto con il datore di lavoro: quest'ultimo non ha obbligazioni contrattuali di protezione nei confronti dei terzi”.
A questo proposito, è stato richiamato il principio secondo il quale il danno fatto valere iure proprio dai congiunti di un lavoratore, anche qualora il danno a quest'ultimo sia derivato da inadempimento del contratto di lavoro, non ha fonte, per l'appunto, nel contratto, ma ha titolo in una responsabilità extra contrattuale del datore di lavoro, con la conseguenza che gli oneri probatori sono quelli tipici della responsabilità extracontrattuale e non già quelli della responsabilità da inadempimento (Cass. n. 2 del 2020).
Né – secondo la Corte - può prospettarsi una responsabilità contrattuale del datore di lavoro, ricorrendo alla figura del contratto con effetti protettivi nei confronti del terzo, figura che vale per il solo caso di contratto che abbia la finalità di favorire la procreazione (Cass. 11320/ 2022; Cass. 2232 / 2024) e che, data la regola generale dell’efficacia del contratto limitata alle parti, non può essere estesa a qualunque terzo che possa essere coinvolto dall'inadempimento.
Pertanto, ha concluso la Cassazione, l’azione intentata dal marito per un danno proprio è un'azione volta a far valere la responsabilità extracontrattuale del datore di lavoro e non quella contrattuale che quest'ultimo ha nei confronti del solo lavoratore. Con la conseguenza ulteriore che non valgono le regole sul riparto dell'onere della prova proprie della responsabilità contrattuale, e cioè di quella specifica ipotesi di responsabilità contrattuale nella quale il datore di lavoro può incorrere verso il lavoratore per la violazione degli obblighi di sicurezza sul lavoro. Al contrario, “vale… la regola per cui il danneggiato deve provare la colpa del danneggiante nella determinazione dell'evento dannoso, oltre che il nesso di causa”.
Dunque, era a carico del terzo, in questo caso del marito della donna danneggiata, la prova che il fatto era prevedibile e che era altresì evitabile attraverso la predisposizione di determinate cautele generiche o specifiche.
Il ricorso è stato rigettato, ma le spese compensate, “in ragione anche della qualificazione fornita dai giudici di merito della fattispecie, non corrispondente a quella effettiva”.
Il licenziamento intimato dalla Società cedente dopo la cessione di azienda non può essere definito illegittimo per ingiustificatezza (mancanza di giustificato motivo illegittimo), bensì deve ritenersi giuridicamente inesistente. Inoltre, la cedente non può essere condannata a pagare alcunché alla lavoratrice licenziata (neppure in via solidale), essendo il rapporto continuato ex lege col cessionario, unico soggetto obbligato a risarcire il danno.
La Cassazione (ordinanza 9 dicembre 2024, n. 31551) ha fatto il punto in tema di licenziamento a non domino nel solco di un orientamento dalla medesima espressamente definito ‘assestato’.
Difatti - ha ricordato la Corte - già Cass. ord. n. 3235/2024, ha precisato che “il licenziamento intervenuto dopo il passaggio ex lege del rapporto di lavoro, garantito dall'effetto legale ex art. 2112 c.c. in caso di cessione di azienda (o retrocessione), è tamquam non esset e non deve essere impugnato in alcun termine di decadenza, perché non si discute nemmeno di licenziamenti e della relativa disciplina. La domanda svolta dal lavoratore in tali casi è intesa soltanto a far valere l'effettività del passaggio; ad avvalersi cioè degli effetti ex lege della cessione e non ad impugnare un licenziamento che per essere intervenuto dopo il passaggio è inidoneo ad inficiare gli effetti legali del passaggio ed a determinare alcuna estinzione del rapporto; anche per difetto di legittimazione sostanziale e di titolarità del rapporto in capo al cedente. Il rispetto della normativa sui licenziamenti individuali, ivi compreso l'onere del rispetto della impugnazione, deve ritenersi richiamato dall'art. 2112,4 comma c.c. solo per i casi di possibile recesso da parte del cedente prima che l'effetto di continuità garantito dal 1comma dell'articolo 2112 c.c. possa esprimere i suoi effetti".
Negli stessi termini si era già pronunciata anche la sentenza n. 27322 del 26 settembre 2023 laddove la Corte aveva evidenziato che, in caso di trasferimento di azienda, la cessione dei contratti di lavoro avviene ope legis ex art. 2112 c.c., sicché il licenziamento intimato dal cedente successivamente alla cessione è totalmente privo di effetti.
Tale conclusione – secondo la Cassazione - è oggi avvalorata dall'art. 80-bis del D.L. 34/2020. Quest’ultima norma esclude che, tra gli atti di costituzione e di gestione del rapporto di lavoro, menzionati dall'art. 38, comma 3, del D.lgs. n. 81 del 2015, rientri il licenziamento intimato dal datore di lavoro apparente in quanto interposto. La norma è di interpretazione autentica ed è quindi applicabile retroattivamente anche a controversie sorte precedentemente alla sua entrata in vigore ed era già stata estesa dalla Corte, per identità di ratio, anche al cd. appalto non genuino di servizi (Cass. n. 32412 del 22 novembre 2023) e richiamata anche a proposito del licenziamento intimato dal cedente dopo la cessione di azienda (da Cass. n. 3235/2024).
Pertanto – ha concluso la Corte - il licenziamento intimato a non domino, da un soggetto effettivamente estraneo al rapporto (datore di lavoro formale, apparente o comunque soggetto non legittimato), è inidoneo, in ogni caso, ad esplicare effetti sul rapporto di lavoro instaurato con il datore di lavoro sostanziale.