Presentazione del libro "Obiter dicta" di Filippo Annunziata

Giovedì 3 ottobre 2024, ore 15.00

Via delle Pandette n. 35, Aula 4/1.02., Firenze

Con la sentenza del 26 settembre 2024 nella causa C – 792/22 (Energotehnica), la Corte ha statuito che i giudici nazionali devono potersi astenere dal seguire una decisione della loro corte costituzionale qualora tale decisione sia in contrasto con il diritto dell'Unione. In tal caso, essi non possono essere oggetto di sanzioni disciplinari.

Ecco il comunicato stampa ed il testo della sentenza: https://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf;jsessionid=7537A14E894AB1C507802F01288FE8E6?text=&docid=290412&pageIndex=0&doclang=it&mode=req&dir=&occ=first&part=1&cid=1917232

L’applicazione del regime di tutela della libertà di espressione del whisleblower non cessa automaticamente con la fine del rapporto di lavoro.

Questo è quanto ha evidenziato la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella recente sentenza H.H. c/ Armenia (ric. 15028/16) (in calce il testo completo).

Come si dà atto nell’ambito della stessa pronuncia, i casi in materia di whistleblowing esaminati dalla medesima Corte fino a qual momento avevano riguardato la divulgazione ad una autorità esterna o al pubblico in generale di informazioni interne che un dipendente aveva ottenuto nel corso del proprio rapporto di lavoro.

In tali casi, la Corte aveva affermato che la tutela di cui godono i whistleblower ai sensi dell'articolo 10 della Convenzione si fondava sulla necessità di considerare le caratteristiche proprie dell'esistenza di un rapporto di lavoro: da un lato, il dovere di lealtà, di riservatezza e di discrezione inerente al rapporto di lavoro e, se del caso,  l'obbligo di rispettare un vincolo di segretezza previsto dalla legge; dall'altro, la posizione di vulnerabilità economica nei confronti della persona, dell'istituzione pubblica o dell'impresa da cui dipendono per l'occupazione ed il rischio di subire ritorsioni.

Al contrario, nel caso affrontato nella recente sentenza, la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sull’applicabilità del regime di tutela della libertà di espressione degli informatori ad una situazione in cui la segnalazione di informazioni su atti e omissioni sul lavoro che avrebbero rappresentato una minaccia o un pregiudizio per l'interesse pubblico aveva avuto luogo dopo la fine del rapporto di lavoro. Inoltre, la peculiarità del caso di specie risiedeva anche nel fatto che il ricorrente non era mai uscito allo scoperto, avendo, piuttosto, utilizzato solo canali interni di segnalazione a seguito di una chiamata da parte del suo ex datore di lavoro per segnalare qualsiasi informazione relativa a pratiche di corruzione all'interno dell'impresa.

In tale contesto, la Corte ha osservato che l’attuale approccio europeo è nel senso che la cessazione del rapporto di lavoro non è un ostacolo alla protezione del whistleblower. Infatti, sia la raccomandazione CM/Rec (2014)7 del Comitato dei ministri che la direttiva 2019/1937/UE – ricorda la Corte - estendono la tutela della libertà di espressione degli informatori agli ex dipendenti.

La Corte ha ritenuto che, in circostanze come quelle del caso di specie, in cui, come detto, la denuncia di un presunto illecito è avvenuta dopo la cessazione del rapporto di lavoro, il regime di tutela della libertà di espressione degli informatori non dovrebbe cessare automaticamente di applicarsi per il solo fatto che il rapporto di lavoro è cessato. Piuttosto, tale protezione può, in linea di principio, applicarsi a condizione che le informazioni di interesse pubblico siano state ottenute mentre il whistleblower vi aveva accesso privilegiato in virtù del rapporto di lavoro. Sebbene nei casi in cui il rapporto di lavoro è terminato non si possa parlare di ripercussioni su di esso - secondo la Corte - le misure di ritorsione nei confronti dell'ex dipendente possono assumere altre forme. Ciò che rileva, dunque, è se il danno subito dall'ex dipendente sia stato la conseguenza diretta della divulgazione protetta.

Con riferimento al caso concreto, la Corte ha rilevato che il ricorrente aveva presentato il rapporto contenente le accuse di corruzione quando non era più impiegato presso la Società; pertanto, non aveva subito alcuna ripercussione sul lavoro, perché il suo rapporto di lavoro era, appunto, nel frattempo terminato. Tuttavia, la sua relazione si basava principalmente su informazioni acquisite durante il precedente impiego. Di conseguenza, egli poteva essere considerato come “l’unica persona, o parte di una piccola categoria di persone, consapevole di ciò che stava accadendo sul lavoro e quindi nella posizione migliore per agire nell'interesse pubblico allertando il datore di lavoro o il pubblico in generale”.

Da qui il corollario dell’applicazione, da parte della Corte, dei principi elaborati in tema di whistleblowing che includono di valutare:

  1. se fossero disponibili o meno canali alternativi per la divulgazione;
  2. l'interesse pubblico alle informazioni divulgate;
  3. l'autenticità delle informazioni divulgate;
  4. il pregiudizio per il datore di lavoro;
  5. se l'informatore abbia agito in buona fede;
  6. la severità della sanzione.

Secondo la Corte, i giudici nazionali avevano trattato il caso come una mera controversia per diffamazione senza applicare, dunque, i principi ora richiamati.

Soppesando gli interessi in gioco, la Corte ha accertato la violazione dell’art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che, come è noto, tutela la libertà di espressione[1].


[1] 1. Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive.

 2. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario.

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