Il Consiglio dei ministri, nella seduta del 9 dicembre 2024, ha approvato il decreto Milleproroghe che introduce disposizioni urgenti in materia di termini normativi.
Come si legge nel comunicato stampa pubblicato sul sito istituzionale, il testo interviene con proroghe e modifiche normative volte a garantire la continuità dell’azione amministrativa e a introdurre misure organizzative essenziali per l’efficienza e l’efficacia dell’azione delle pubbliche amministrazioni.
Tra le altre cose, è stato approvato in esame preliminare il decreto legislativo contenente “disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, in materia di mediazione civile e commerciale e negoziazione assistita”.
Il decreto interviene, in particolare:
La Corte di Cassazione ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata in riferimento agli artt. 2, 3, 32 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, nel testo antecedente alla modifica normativa introdotta con l'art. 2, comma 1, lett. n) del decreto legislativo 30 giugno 2022, n.105, nella parte in cui non include il convivente more uxorio tra i soggetti beneficiari del congedo straordinario finalizzato all'assistenza del familiare con disabilità grave.
L’ordinanza interlocutoria n. 30785 del 2 dicembre 2024 ha così rimesso la questione alla Corte Costituzionale, ritenendo sussistente sia la rilevanza che la non manifesta infondatezza.
Per quanto riguarda la rilevanza, la Corte:
- ha constatato che la norma in questione (pre-riforma) elenca un numero chiuso di soggetti legittimati alla percezione del beneficio, che non ricomprende il convivente more – uxorio;
- ha escluso che, sulla base della novella legislativa del 2022[1], fosse praticabile una interpretazione evolutiva e costituzionalmente orientata della disposizione.
Circa, invece, la non manifesta infondatezza, secondo la Corte, la norma dettata dall'art. 42, comma 5, D.lgs. n. 151 del 2001, nel testo anteriore alla riforma, applicabile ratione temporis, viola la tutela costituzionale da riconoscersi all'aggregazione costituita dalla convivenza di fatto e quindi dalla famiglia di fatto, in quanto comunità d'affetti in cui l'individuo sviluppa la propria personalità nella garanzia dei diritti inviolabili.
Tale esclusione comprime “in modo irragionevole (art. 3 Cost.) il diritto alla salute psicofisica (art. 32 Cost.) del disabile grave - inteso come diritto inviolabile dell'uomo ex art. 2 Cost. - limitandone l'assistenza all'interno della propria comunità di vita in funzione di un dato normativo integrato "dal mero rapporto di coniugio" (art. 29 Cost.)”.
E – si legge nella pronuncia – “il diritto inviolabile alla salute del disabile grave nella sua dimensione piena - anche relazionale - non può essere obliterato ove custodito e protetto in seno alla famiglia di fatto”.
L’ordinanza in esame è particolarmente interessante nella parte in cui richiama la posizione assunta nel tempo dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. A questo fine, vengono ripercorse le principali pronunce sulla base delle quali si può affermare che la famiglia è considerata, dalla normativa e giurisprudenza europea, sia nella sua “versione tradizionale”, composta da due membri di sesso diverso uniti in matrimonio, sia nella “versione moderna” costituita da coppie non unite in matrimonio, ma semplicemente conviventi, siano esse di sesso diverso o dello stesso sesso.
In sintesi, secondo la Corte, prendendo le mosse dai principi generali che vengono in rilievo nelle materie della famiglia, del lavoro e della protezione dei soggetti fragili, sia la Corte EDU sia la Corte Costituzionale, pur riconoscendo la discrezionalità del legislatore nel prevedere diverse soglie di tutela dei vincoli discendenti dal matrimonio e dalla convivenza di fatto in relazione alla necessità di proteggere i contro-interessi in gioco, hanno “stigmatizzato che nessuna situazione espressiva della scelta di un differente modello familiare può restare priva di tutela”.
Deve pur sempre trattarsi – prosegue la Corte – di un bilanciamento e non di indifferenza del legislatore allorché vengono in gioco, nella comunità degli affetti, i profili relativi alla protezione del componente fragile, protezione immutata e conformata a doveri di solidarietà indipendentemente dall'esservi o meno il crisma del vincolo coniugale.
La Cassazione rammenta che la salute psicofisica del disabile, quale diritto fondamentale dell'individuo tutelato dall'art. 32 Cost., rientra tra i diritti inviolabili che la Repubblica riconosce e garantisce all'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.) e che “la cura, l'accudimento, la protezione del disabile e il soddisfacimento dell'esigenza di socializzazione conformato alle delicate modalità del vivere correlate alla disabilità, costituiscono fondamentali fattori di sviluppo della personalità e idonei strumenti di tutela della salute del disabile, nella sua accezione più ampia di salute psicofisica e sulla condizione giuridica della persona con disabilità confluisce un complesso di valori che attingono ai fondamentali motivi ispiratori del disegno costituzionale”.
Il ruolo fondamentale svolto dalla famiglia, nella cura e nell'assistenza dei soggetti disabili, dunque, “va affermato, pur nella distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale, nella comunità di vita e affetti in cui, l'assenza del vincolo coniugale costituisce un mero dato normativo che, ove così non fosse, comprimerebbe irragionevolmente l'effettività dell'assistenza ed integrazione del disabile nella comunità affettiva discriminando altresì i caregiver o prestatori di assistenza dediti, in identica misura, ad apprestare accudimento premuroso al congiunto disabile”.
Difatti, secondo la Corte, la convivenza di fatto è, in concreto, capace di corrispondere alle esigenze di realizzazione dei fondamentali bisogni di cura e protezione della persona disabile grave al pari del rapporto coniugale.
[1] Il D.lgs. n. 105 del 2022, art. 2, comma 1, lettera n), ha riformulato l'art. 42, comma 5, del D.Lgs. n. 151 del 2001 equiparando, ai fini del godimento del congedo straordinario per l'assistenza del congiunto con disabilità grave, ex art. 3, comma 3, della legge n. 104 del 1992, il convivente di fatto, di cui all'art. 1, comma 36, della legge n. 76 del 2016, al coniuge convivente.
In tema di conto corrente bancario, sebbene non vi sia un dovere generale dell’istituto di credito di monitorare la regolarità delle operazioni ordinate dal cliente, in applicazione dei doveri di esecuzione del mandato secondo buona fede, sussiste un obbligo di protezione che, ogni qualvolta l'operazione appaia ictu oculi anomala e non rispondente agli interessi del correntista, impone di rifiutarne l'esecuzione o, quantomeno, di informare il cliente.
La Corte di Cassazione, in una recente pronuncia (ordinanza 4 dicembre 2024, n. 31052), ha ribadito tali principi che costituiscono, all’evidenza, un’applicazione della buona fede contrattuale.
Un’associazione politica aveva convenuto in giudizio un istituto bancario affinché ne venisse accertata la responsabilità per violazione degli obblighi contrattuali ex art. 1218 c.c. e, in subordine, la responsabilità ex artt. 1228 e 2049 c. c., per fatto degli ausiliari.
A fondamento della propria domanda, l’associazione aveva allegato di aver acceso, presso l’agenzia Senato della Banca convenuta, un conto corrente in cui confluivano le risorse economiche del partito ed in cui erano autorizzati ad operare disgiuntamente il Presidente ed il tesoriere. Quest’ultimo, per un periodo di quattro anni, si era indebitamente appropriato delle risorse del conto, così svuotandolo. L’associazione si era accorta di tale indebita appropriazione, per cui si era anche proceduto in sede penale, soltanto a seguito della comunicazione della Banca d'Italia, mentre l’istituto presso il quale era stato acceso il conto non aveva segnalato alcunché, pur in presenza di numerose operazioni anomale, per frequenza ed elevato importo, limitandosi ad inviare le comunicazioni ordinarie (contabili bancarie, estratti conto mensili), oltretutto, soltanto al tesoriere infedele. Di conseguenza, secondo la tesi dell’associazione, sussisteva la responsabilità della banca ed il danno risarcibile doveva essere considerato di ammontare pari agli importi illecitamente sottratti.
Il Tribunale aveva rigettato la domanda risarcitoria con sentenza poi confermata dalla Corte d’appello.
L’associazione aveva così proposto ricorso per cassazione, poi accolto dalla Suprema Corte.
Secondo la Cassazione, sebbene, in linea generale, non possa essere affermato un indiscriminato e generale obbligo in capo alla banca di controllo delle movimentazioni del conto corrente, per altro verso, “la banca è tenuta, in relazione all'obbligo di buona fede oggettiva nell'ambito del rapporto contrattuale di cui all'art. 1175 cod. civ. e nell'esecuzione in buona fede del contratto ai sensi dell'art. 1375 cod. civ., ad attivarsi, onde evitare, senza eccessivo sacrificio per il suo interesse, un eccessivo pregiudizio per il proprio cliente correntista, e dunque a dare perlomeno segnalazione al cliente delle operazioni che, nel caso di specie, per rilevante frequenza, esorbitante importo, anomale modalità di effettuazione -mediante frazionamento ed anche mediante prelievo in contanti - si rivelavano estranee all'attività ed agli interessi del partito stesso”.
Come ricorda la pronuncia, la Suprema Corte aveva già avuto modo di affermare, in via generale, che la clausola di buona fede nell’esecuzione del contratto opera come criterio di reciprocità, imponendo a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra e costituisce un dovere giuridico autonomo a carico delle parti contrattuali, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da norme di legge, con la conseguenza che la sua violazione costituisce di per sé inadempimento e può comportare l'obbligo di risarcire il danno.
Più nello specifico, la Corte ha precisato che “In tema di conto corrente bancario, pur non potendosi pretendere che l'istituto di credito, con il quale una società intrattenga rapporti di conto corrente, si trasformi nel controllore esterno della regolarità delle operazioni compiute dall'amministratore di detta società, rientrano nel dovere di esecuzione del contratto secondo correttezza e buona fede, gravante sul mandatario (e quindi sulla banca, alla quale la società abbia affidato i propri depositi), il rifiuto di operazioni "ictu oculi" anomale, quando esse siano tali da compromettere palesemente l'interesse della correntista o, quanto meno, quale dovere di protezione dell'altro contraente, l'attivazione della banca per informarne la società, in persona di un amministratore diverso da quello intenzionato a realizzare l'operazione manifestamente lesiva (Cass., 31/03/2010, n. 7956)”.
Si tratta di obblighi di informazione e di protezione particolarmente cogenti, nei rapporti con i clienti, per l'istituto di credito, atteso che questi è tenuto ad operare con la diligenza richiesta dall'attività professionale ex art. 1176, comma 2, c.c.
Nel caso di specie, secondo la Cassazione, la Corte territoriale si era pronunciata in maniera difforme rispetto a tali principi, in particolare laddove, pur dando atto della riscontrata anomalia di numerose operazioni di conto corrente, aveva escluso l’obbligo di un controllo della banca in funzione protettiva del cliente.
Né poteva considerarsi sufficiente, e determinante, il fatto che la banca avesse assolto l'obbligo di comunicazione previsto dall’art. 119 T.U.B.; premesso che le comunicazioni periodiche ed ordinarie erano state inviate dall'istituto di credito soltanto a colui che si era poi rivelato essere un tesoriere infedele – a dire della Corte - viene in rilievo non solo il dovere di attivazione e di informazione (ulteriore rispetto a quello ordinario e periodico) di comunicazione al correntista di operazioni anomale, ma anche la necessità della “attivazione della banca per informarne la società, in persona di un amministratore diverso da quello intenzionato a realizzare l'operazione manifestamente lesiva”.
La Corte ha del pari reputato erronea la statuizione secondo la quale, nel caso di specie, non sarebbe configurabile un danno risarcibile in quanto l’attività illecita del tesoriere sarebbe stata consentita dall'assenza di meccanismi di controllo interni al partito. Secondo la Cassazione, l’eventuale assenza di un controllo interno sull’operato del tesoriere, rivelatosi infedele, non basterebbe di per sé ad escludere del tutto la responsabilità della banca, potendo, al più, essere applicato l’art. 1227 c.c. per il concorso di colpa del creditore.