Dopo quasi vent’anni di attesa, il Consiglio dei Ministri del 25 novembre 2024 ha approvato il Regolamento contenente la tabella unica nazionale (TUN) per il danno non patrimoniale derivante da macrolesioni (da sinistro stradale e da responsabilità sanitaria). La tabella precisa il valore pecuniario da attribuire ad ogni singolo punto di invalidità tra 10 e 100 punti, comprensivo dei coefficienti di variazione corrispondenti all’età del soggetto leso ai sensi dell’articolo 138, comma 1, lettera b), del codice delle assicurazioni private di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209
Il regolamento era stato approvato già lo scorso gennaio, ma il Consiglio di Stato aveva sollevato varie critiche, così sospendendo, di fatto, l’approvazione.
Nell’attesa del testo finale, si rammenta che l’obiettivo della TUN è, ovviamente, quello di ridurre le disparità tra i sistemi tabellari sino ad oggi applicati (Milano e Roma) e garantire una certa uniformità nei risarcimenti.
L’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80/CE del 29 aprile 2004, relativa all'indennizzo delle vittime di reato, dev'essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa di uno Stato membro che prevede un sistema di indennizzo per i reati intenzionali violenti che subordina, in caso di omicidio, il diritto all'indennizzo dei genitori della persona deceduta all'assenza di coniuge superstite e di figli di tale persona e quello dei fratelli e delle sorelle di quest'ultima all'assenza di detti genitori.
Questa è la conclusione alla quale è giunta la Corte di Giustizia nella recente decisione del 7 novembre 2024 C-126/2023 che vedeva, tra le parti, la Presidenza del Consiglio dei ministri italiana (qui il testo integrale).
Il Tribunale di Venezia aveva sollevato la questione pregiudiziale in relazione alla controversia che era insorta tra il Governo italiano ed i familiari (i genitori, la sorella e i figli della vittima) di una donna uccisa dall’ex compagno i quali avevano chiesto un indennizzo “equo ed adeguato”.
Ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80, tutti gli Stati membri sono tenuti a provvedere affinché le loro normative nazionali prevedano l’esistenza di un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, che garantisca un indennizzo equo ed adeguato delle vittime.
La Corte di Giustizia ha preso le mosse dalla nazione di ‘vittima’ ed ha constatato che se questa dovesse essere interpretata, come sostenuto dal governo italiano, “nel senso che essa include esclusivamente nell’ambito di applicazione ratione personae di tale disposizione le vittime dirette dei reati intenzionali violenti, i reati rientranti in tale nozione che hanno portato alla morte della persona che li ha subiti non rientrerebbero nell’ambito di applicazione ratione materiae di detta disposizione, in violazione del suo obiettivo”. Secondo l’interpretazione dell’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80 difesa dal governo italiano, in caso di omicidio, lo Stato membro interessato – precisa la Corte - non sarebbe tenuto a versare alcun indennizzo, poiché, in tal caso, essendo deceduta l’unica “vittima” del reato intenzionale violento, nessun’altra persona, come, in particolare, il coniuge superstite o i figli, dovrebbe, in linea di principio, essere indennizzata in questa stessa qualità.
Questa interpretazione, però, equivarrebbe a privare l’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80 della parte essenziale del suo effetto utile, in quanto imporrebbe agli Stati membri l’istituzione di un sistema nazionale di indennizzo per i reati intenzionali violenti unicamente qualora la persona che ha subito tale reato sopravviva alle lesioni, ma non laddove tale persona sia deceduta a causa di queste ultime.
Pertanto, la nozione di “vittime”, ai sensi della disposizione richiamata, a vantaggio delle quali gli Stati membri devono istituire un sistema nazionale di indennizzo, deve essere intesa nel senso che può includere le vittime indirette di un atto qualificato come reato intenzionale violento, quali i familiari stretti della persona deceduta a causa di tale reato, quando subiscono, di riflesso, le conseguenze di quest’ultimo.
In secondo luogo, la Corte ha affrontato la questione se si possa ritenere che una normativa nazionale che, in caso di omicidio, subordina il diritto all’indennizzo dei genitori della persona deceduta a causa di un atto qualificato come reato intenzionale violento all’assenza di coniuge superstite e di figli di quest’ultima e quello dei fratelli e delle sorelle della vittima all’assenza dei genitori, garantisca a tali vittime un indennizzo “equo ed adeguato”, ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80.
A questo riguardo, la Corte ha ricordato che, tenuto conto, da un lato, del margine di discrezionalità riconosciuto agli Stati membri da tale disposizione per quanto riguarda tanto il carattere “equo ed adeguato” dell’importo dell’indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti quanto le modalità di determinazione dello stesso e, dall’altro, della necessità di garantire la sostenibilità finanziaria dei sistemi nazionali di indennizzo, l’indennizzo non deve necessariamente corrispondere al risarcimento dei danni che può essere riconosciuto, a carico dell’autore del reato, alla vittima di tale reato. Di conseguenza, tale indennizzo non deve necessariamente garantire un ristoro completo del danno materiale e morale subito dalla vittima.
In tale contesto, spetta in definitiva al giudice nazionale garantire, alla luce delle disposizioni nazionali che hanno istituito il sistema di indennizzo, che la somma assegnata ad una vittima di un reato intenzionale violento in forza di tale sistema costituisca “un indennizzo equo ed adeguato”.
Tuttavia, uno Stato membro eccederebbe il margine di discrezionalità accordato se le sue disposizioni nazionali prevedessero un indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti puramente simbolico o manifestamente insufficiente alla luce della gravità delle conseguenze del reato per tali vittime.
Di conseguenza, la misura degli indennizzi deve essere sufficientemente dettagliata, così da evitare che l’indennizzo forfettario previsto per un determinato tipo di violenza possa rivelarsi, alla luce delle circostanze di un caso particolare, manifestamente insufficiente. Ne consegue che, per essere considerato “equo ed adeguato” ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80, un indennizzo forfettario concesso a titolo di un sistema nazionale di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti deve essere fissato tenendo conto della gravità delle conseguenze del reato per le vittime e deve, quindi, rappresentare un appropriato contributo al ristoro del danno materiale e morale subito.
Secondo la Corte, gli Stati membri, nell’esercizio del potere discrezionale di cui dispongono, possono decidere di istituire un sistema nazionale di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti che limiti il beneficio di tale sistema ai familiari stretti della persona deceduta, attribuendo, peraltro, priorità ad alcuni di questi familiari, quali il coniuge superstite e i figli, rispetto ad altri familiari, quali i genitori nonché i fratelli e le sorelle (approccio c.d. a cascata).
Tuttavia, un sistema nazionale di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti non può, in applicazione della logica della devoluzione successoria, escludere automaticamente taluni familiari dal beneficio di qualsiasi indennizzo per il solo fatto che siano presenti altri familiari, e senza che possano essere prese in considerazione considerazioni diverse da tale ordine di devoluzione (quali, in particolare, le conseguenze materiali derivanti, per tali familiari, dalla morte per omicidio della persona o il fatto che detti familiari fossero a carico della persona deceduta o conviventi con essa).
In particolare – a dire della Corte - il fatto di privare, per principio, alcuni familiari di qualsiasi indennizzo deve essere considerato inconciliabile nel caso in cui un giudice abbia concesso a tali familiari un risarcimento danni, per giunta non trascurabile, per il pregiudizio subito a causa della morte della persona che ha subito il reato intenzionale violento, ma l’autore del reato non sia in grado, a causa della sua insolvenza, di pagarlo.
Pertanto, ha concluso la Corte, un sistema nazionale di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti - come quello italiano - dal quale sono escluse alcune vittime senza alcuna considerazione per l’entità dei danni da esse subiti, a causa di un ordine di priorità predefinito tra le diverse vittime che possono essere indennizzate, e fondato unicamente sulla natura dei vincoli familiari, dai quali vengono tratte semplici presunzioni quanto all’esistenza o all’entità dei danni, non può dare luogo a un “indennizzo equo ed adeguato”, ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80.
È ben noto che, ai sensi dell’art. 2104 c.c., 2° co, il lavoratore deve osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dal datore. Ma se l’ordine è contra legem? Il rifiuto è legittimo.
Il Tribunale di Roma (sent. n. 10773 del 28 ottobre 2024), ha risolto in questo modo la questione.
In quel caso, il lavoratore, con mansioni di autista, aveva impugnato la sanzione disciplinare che gli era stata irrogata per essersi rifiutato di proseguire il proprio turno, con conseguente interruzione del servizio pubblico di trasporto locale, asserendo la rischiosità e la pericolosità della manovra di inversione.
Come si legge nella sentenza, la condotta posta alla base del provvedimento disciplinare non era contestata. Quello che, invece, ed appunto, aveva negato il lavoratore era la legittimità del proprio rifiuto in quanto, a suo dire, la manovra richiesta dalla datrice si sarebbe posta in palese violazione delle norme del Codice della Strada.
Alla luce della documentazione fotografica prodotta dalle parti che descriveva la situazione dei luoghi, il Giudice ha ritenuto che non vi fosse dubbio che la condotta di guida richiesta dal datore di lavoro si ponesse in violazione del Codice della Strada.
Di conseguenza, secondo il Tribunale, il rifiuto del lavoratore, come si è anticipato, sarebbe stato legittimo.
La pronuncia si pone in linea con i principi affermati dalla giurisprudenza di Cassazione in pronunce richiamate anche dal medesimo Tribunale.
In particolare, Cass. 19 luglio 2019, n.19579, aveva affermato che “in tema di licenziamento disciplinare, qualora il comportamento addebitato al lavoratore, consistente nel rifiuto di rendere la prestazione secondo determinate modalità, sia giustificato dall'accertata illegittimità dell'ordine datoriale e dia luogo pertanto a una legittima eccezione d'inadempimento, il fatto contestato deve ritenersi insussistente”.
Cass. 28 settembre 2018, n. 23600 aveva concluso che “l’esecuzione di un ordine illegittimo impartito dal superiore gerarchico non basta di per sé ad impedire la configurabilità di una giusta causa di recesso, non trovando applicazione nel rapporto di lavoro privato l'art. 51 c.p. in assenza di un potere di supremazia, inteso in senso pubblicistico, del superiore riconosciuto dalla legge”.
Alcune pronunce hanno riconosciuto una vera e propria facoltà del lavoratore di astenersi dal compiere attività pericolose anche a tutela della propria salute o incolumità. In particolare, in varie occasioni, la Cassazione ha statuito che “nel caso in cui il datore di lavoro non adotti, a norma dell'art. 2087 cod. civ., tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e le condizioni di salute dei prestatori di lavoro, il lavoratore ha - in linea di principio - la facoltà di astenersi dalle specifiche prestazioni la cui esecuzione possa arrecare pregiudizio alla sua salute, essendo coinvolto un diritto fondamentale protetto dall’art. 32 Cost.” (Cass., 10 agosto 2012, n. 14375).
Nel caso affrontato dal Tribunale di Roma, il Giudice, come si è anticipato, ha ritenuto che il rifiuto del lavoratore fosse legittimo e che, dunque, non potesse essere sanzionato disciplinarmente.