L’utilizzo improprio dell’espressione «clandestini» nei confronti di cittadini stranieri richiedenti asilo costituisce un atto discriminatorio, atteso che anche il diritto alla libera espressione del pensiero, cui si accompagna il diritto ad organizzarsi in partiti politici, non può ritenersi equivalente, o addirittura prevalente, rispetto al fondamentale principio di tutela della dignità umana.
Questo il principio affermato dalla Cassazione nella sentenza n. 24686 del 16 agosto 2023, e sulla base del quale è stata accolta la domanda risarcitoria proposta da una associazione, che presta assistenza a cittadini stranieri, nei confronti di un partito politico che, in occasione di un episodio di accoglienza di un gruppo di cittadini stranieri richiedenti asilo, aveva affisso, in prossimità del centro di accoglienza, un manifesto nel quale i migranti venivano definiti, in modo dispregiativo, «clandestini» e additati come beneficiari di «vitto, alloggio e vizi», a carico dei cittadini italiani.
I giudici del merito avevano attribuito all’espressione «clandestini», nelle modalità e con le finalità con cui era stata utilizzata, una valenza discriminatoria ed offensiva, condannando l’organizzazione politica al risarcimento del danno nei confronti dell’associazione attrice. Tali conclusioni sono condivise dalla sentenza in commento.
La Corte di Cassazione passa in rassegna, innanzi tutto, le fonti normative, comunitarie (art. 14 CEDU; artt. 20-23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) e nazionali (artt. 43-44 d.lgs. n. 286 del 1998; art. 2 d.lgs. 215 del 2003 e art. 28 d.lgs. 150 del 2011), del divieto di condotte discriminatorie.
In particolare, si rammenta come una prima definizione normativa del concetto di discriminazione la si rinviene all’art. 43 del d.lgs. n. 286 del 1998, a norma del quale «costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica».
L’art. 2 del d.lgs. n. 215 del 2003 definisce poi la c.d. discriminazione indiretta, cioè «qualunque disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone»; ed aggiunga, al comma 3, che sono da considerarsi discriminazione quelle «molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo, o l’effetto, di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo».
Sotto il profilo processuale, poi, l’art. 28, co. 4, d.lgs. 150 del 2011 dispone che ove l’istante fornisca elementi di fatto, «desunti anche da dati di carattere statistico», da cui «si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori», sarà il convenuto a dover provare l’assenza di una discriminazione,
Il Supremo Collegio sottolinea, quindi, attraverso il richiamo a diversi precedenti, che il diritto a non essere discriminati costituisce un diritto soggettivo assoluto, «a presidio di un’area di libertà e potenzialità del soggetto, possibile vittima delle discriminazioni» (in questi termini, Cass., Sez. Un., ord. 30 marzo 2011, n. 7186, relativa a condotte discriminatorie nell’ambito dell’attività della P.A. ed ancora da ultimo Cass., Sez. Un., ord. 1° febbraio 2022, n. 3057 che demanda al giudice ordinario i giudizi di impugnativa di atti amministrativi lesivi del diritto assoluto a non essere discriminati).
La Corte, sulla base del quadro normativo delineato dal D.Lgs. 18 agosto 2015, n. 142, art. 1, commi 2 e 3, rileva che «gli stranieri che fanno ingresso nel territorio dello stato italiano», e fanno richiesta della protezione internazionale, «perché temono a ragione di essere perseguitati o perché corrono il rischio effettivo, in caso di rientro nel paese d'origine, di subire un "grave danno"», non possono, considerarsi irregolari e «non sono, dunque, "clandestini"».
Conseguentemente, il termine «clandestini», utilizzato nei confronti dei richiedenti asilo nel caso deciso dalla sentenza in commento, non è riferibile agli stessi.
Ciò premesso, il Supremo Collegio conferma la sentenza d’appello che aveva ritenuto l’utilizzo, in concreto, dell’espressione in questione, discriminatorio.
Nello specifico, la Corte evidenzia che «un termine come quello di cui si discute ("clandestini") abbia assunto concretamente, nell'utilizzo corrente, un contenuto spregiativo e una valenza fortemente negativa; ciò non significa che esso non possa venire utilizzato nella sua originaria accezione strettamente lessicale, ma che il contesto della struttura sociale in cui esso si cala esige comunque, da parte di chi lo evochi, un'estrema attenzione. Se è vero, infatti, che uno dei valori fondanti della Costituzione repubblicana è quello della pari dignità delle persone, è anche vero che il termine di cui si discute può facilmente prestarsi (e indurre), specie se inserito in un contesto verbale come quello del manifesto in questione, ad abusi i quali, creando un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo, si risolvono appunto in un comportamento discriminatorio».
La Corte, dunque, valorizza il contesto in cui l’espressione in questione è stata utilizzata, e dunque i manifesti in cui le stesse persone venivano definite come «usurpatori, per vitto, alloggio e non precisati vizi, di risorse economiche ai danni degli abitanti del Comune».
E conclude, pertanto, che l’utilizzo del termine «clandestini», nel caso deciso dalla sentenza in esame, integra una discriminazione indiretta, in quanto «volto a creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo nei confronti dei 32 richiedenti asilo».
La condotta discriminatoria non potrebbe nemmeno trovare giustificazione nell’esercizio della legittima critica politica, la quale non può spingersi sino all’adozione di «un comportamento discriminatorio assunto, tra l'altro, nei confronti di soggetti assai di frequente neppure consapevoli dei loro diritti e, perciò, in una posizione obiettiva di debolezza (e non sembra casuale la circostanza che nessuno di loro, nel caso in esame, abbia agito a tutela del proprio diritto)».
La sentenza in esame si pone, infine, il problema del necessario bilanciamento tra la «tutela dei diritti degli stranieri» e «i principi costituzionali della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) e della libertà dei cittadini di associarsi liberamente in partiti politici (art. 49 Cost.)».
In particolare, la Corte richiama i principi affermati costantemente dalla Corte EDU (Gunduz c. Turchia, ric. n. 35071/97, 4 dicembre 2003, pp. 40-41), secondo cui «la tolleranza e il rispetto per la uguale dignità di tutti gli esseri umani costituisce il fondamento di una società democratica e pluralista. In considerazione di ciò, può essere necessario come questione di principio in determinate società democratiche sanzionare o anche precludere ogni forma di espressione che diffonda, istighi, promuova o giustifichi il livore basato sull'intolleranza».
Sulla base di questi principi la sentenza afferma il principio secondo cui «il diritto alla libera manifestazione del pensiero, cui si accompagna quello ad organizzarsi in partiti politici, difatti, non può essere ritenuto equivalente, o addirittura prevalente, sul fondamentale principio del rispetto della dignità personale degli individui».