Al lavoratore che è stato collocato in maniera illegittima in cassa integrazione spetta il risarcimento del danno professionale.
Secondo la Cassazione, il danno da inattività per collocazione in cassa integrazione non è affatto differente da quello relativo all’inattività discendente dalla violazione dell’art. 2103 c.c. per svuotamento di mansioni o altri illeciti simili.
Si tratta di un principio evidenziato da una recente ordinanza (n. 10267 del 16 aprile 2024) che ha sottolineato che la responsabilità del datore di lavoro che lasci inattivo il lavoratore in violazione di disposizioni di legge o contrattuali (relative alla sospensione per cassa integrazione o alla normativa in tema di corretta assegnazione delle mansioni) risulta, in ogni caso, discendente dalla violazione di obblighi che discendono da norme che integrano il contratto di lavoro e, dunque, configura sempre una forma di responsabilità di natura contrattuale.
La Corte territoriale, rigettando l’appello principale della società datrice di lavoro ed accogliendo, invece, parzialmente, quello proposto dalla lavoratrice, aveva condannato la prima a corrispondere la somma equitativa pari al 30 % della retribuzione mensile netta a titolo di danno alla professionalità per tutto il periodo di illegittima sospensione dal lavoro in cassa integrazione.
La Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dalla Società che, tra le altre cose, aveva censurato la pronuncia di secondo grado per aver riconosciuto il danno alla professionalità da inattività richiamando una giurisprudenza estranea alla fattispecie in quanto riferita alla violazione dell’art. 2103 c.c.
La Suprema Corte, nel respingere la censura della datrice di lavoro, ha in primo luogo osservato che il danno alla professionalità, per sua natura plurioffensivo, richiesto dalla lavoratrice e liquidato dal giudice d'appello, è un danno diverso dalla mancata percezione della retribuzione per illegittima collocazione in cig: il primo è infatti legato, appunto, alla perdita della professionalità, dell'immagine professionale e della dignità lavorativa; il secondo, invece, è di natura esclusivamente patrimoniale e deriva dalla mancata corresponsione e percezione della retribuzione derivante dal contratto.
Ha poi aggiunto che il danno patrimoniale alla professionalità, per giurisprudenza consolidata, può essere liquidato prendendo a riferimento una quota della retribuzione che, nel caso di specie, la Corte di merito aveva individuato nella misura del 30%.
Secondo la Cassazione, la Corte territoriale avrebbe svolto un accertamento pienamente in linea con la giurisprudenza di legittimità, sull’an, sulla prova, ed anche sul quantum (cfr. Cass. 19923/2019).
Si rammenta, a questo riguardo, che, secondo tale insegnamento, ai fini della dell'esistenza e della prova anche presuntiva del danno alla professionalità (anche da demansionamento e dequalificazione professionale), costituiscono elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione (Cass. n. 25743 del 2018; n. 19778 del 2014; n. 4652 del 2009; n. 29832 del 2008).
L’accertamento in merito alle circostanze da cui il giudice ha argomentato la lesione della professionalità e l’esistenza di un danno non può essere sindacato in sede di legittimità attenendo, ovviamente, il merito della vicenda.
Inoltre, nella vicenda esaminata dalla Corte, il periodo di forzosa ed illegittima inattività aveva riguardato diversi anni (almeno tre) e, secondo la Cassazione, sarebbe conforme all’art. 2697 c.c. sostenere che tale periodo possa essere apprezzato dal punto di vista della produzione di conseguenze pregiudizievoli per il lavoratore.