Come deve essere risarcito il danno da perdita di capacità lavorativa specifica subita in conseguenza degli effetti negativi prodotti da un illecito?
Secondo l’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, laddove il danneggiato/lavoratore dimostri di avere perduto un preesistente rapporto di lavoro a tempo indeterminato di cui era titolare, a causa delle lesioni conseguenti ad un illecito, il danno patrimoniale da lucro cessante, inteso come perdita dei redditi futuri, va liquidato tenendo conto di tutte le retribuzioni (nonché di tutti i relativi accessori e probabili incrementi, anche pensionistici) che egli avrebbe potuto ragionevolmente conseguire in base a quello specifico rapporto di lavoro, in misura integrale e non in base alla sola percentuale di perdita della capacita lavorativa specifica accertata come conseguente alle lesioni permanenti riportate.
Se, invece, il responsabile dell’illecito allega e dimostra che il danneggiato/lavoratore ha, di fatto, reperito una nuova occupazione, ovvero che avrebbe potuto farlo e non lo ha fatto per sua colpa, il danno potrà essere liquidato esclusivamente nella differenza tra le retribuzioni perdute e quelle di fatto conseguite o conseguibili in virtù della nuova occupazione (vedi Cass. n. 28071/2020; Cass. n. 14241/2023).
Si tratta, in sostanza, di un’applicazione del principio - pacifico - di integralità del risarcimento che impone di ristorare la parte danneggiata da tutte le conseguenze pregiudizievoli ad essa derivanti dall’illecito, indipendentemente dal fatto che tali conseguenze si siano verificate immediatamente ovvero spiegheranno la loro forza lesiva, con certezza (processuale), in futuro.
Le situazioni prese in considerazione dall’orientamento sopra richiamato sono due:
- il caso in cui, a causa delle conseguenze dell’illecito, il danneggiato ha perduto l’attività lavorativa esercitata;
- quello in cui il danneggiato, impossibilitato a svolgere la precedente attività lavorativa, abbia comunque trovato impiego aliunde.
In entrambi i casi, tuttavia, il principio di integralità del risarcimento è stato affermato dalla Corte di Cassazione con la medesima forza. In sintesi, infatti, nel primo caso, il danneggiato ha diritto alla integralità della retribuzione che avrebbe potuto ragionevolmente percepire se avesse proseguito nella sua attività lavorativa.
Nel secondo, il danneggiato ha diritto alla (eventuale) differenza tra le retribuzioni spettanti alla luce dell'attività lavorativa perduta (a causa dell'illecito) e quella corrisposta in ragione della nuova attività lavorativa (reimpiego che il danneggiato è stato costretto a cercare per effetto della perdita della precedente attività).
Questi principi, elaborati, come si è detto, dalla giurisprudenza di legittimità, sono stati ribaditi anche in recenti pronunce.
Si segnala, in particolare, Cass. 16 gennaio 2024, n. 1607, ord., che ha esteso le considerazioni ora richiamate ad un caso in cui il danneggiato/attore aveva lamentato di aver subito una riduzione del trattamento retributivo in conseguenza del demansionamento subito per effetto della accertata incapacità a svolgere le precedenti attività (in quel caso, si trattava delle funzioni di macchinista) a causa delle lesioni determinate dall’illecito.
In tale occasione, la Cassazione ha precisato che gli effetti del demansionamento, cioè l’adeguamento in peius del trattamento retributivo, rientrano tra le conseguenze dirette dell’illecito, benché future (ma certe), e che, in quanto tali, devono essere valutate ai fini della quantificazione del risarcimento del danno ai sensi degli artt. 1223 e 2056 c.c.
Secondo la Corte, infatti, in assenza delle conseguenze lesive riportate a causa dell’illecita condotta altrui, il danneggiato avrebbe con certezza proseguito nella propria attività lavorativa di macchinista, così continuando a percepire la maggiore retribuzione corrispondente alla qualifica professionale per la quale era stato assunto. In altre parole, “se il risarcimento in sede civile svolge una funzione tendenzialmente compensativa - riportando il patrimonio del danneggiato nella medesima curva di indifferenza in cui si sarebbe trovato in assenza delle conseguenze derivanti dall' illecito - non si può non riconoscere, nel caso di specie, il diritto del A.A. alla differenza sussistente tra la retribuzione percepita quando ricopriva l’incarico di macchinista e la retribuzione percipienda in qualità di funzionario amministrativo”.
Per quanto riguarda la quantificazione, la Cassazione ha affermato che, affinché il già ricordato principio di integralità del risarcimento possa dirsi effettivo, l’ampiezza della retribuzione media (dell’attività lavorativa precedentemente svolta) e che costituisce la base di calcolo per la determinazione del danno futuro da perdita – nella vicenda di specie, da ‘riduzione’ - della capacita lavorativa, deve essere tale da comprendere non solo la componente fissa della retribuzione, ma anche tutti i relativi accessori e i probabili aumenti retributivi.
La determinazione del danno futuro, infatti, essendo un danno sì accertato in giudizio, ma che spiegherà i propri effetti lesivi in un secondo momento, non può che essere effettuata in via prognostica.
Nell’ambito della vicenda in quel caso affrontato, secondo la Cassazione, la Corte territoriale aveva errato laddove aveva affermato che la parte di retribuzione avente ad oggetto le componenti accessorie non avrebbe potuto costituire oggetto di liquidazione del danno futuro, ritenendo che le stesse presupponessero “la prestazione effettiva del lavoro straordinario notturno, festivo o di altro genere, comunque correlato a speciali attività connesse alla funzione rivestita”. In particolare, la Corte territoriale avrebbe genericamente ricondotto l’intera categoria delle componenti accessorie della retribuzione al diverso ambito delle prestazioni che sono solo occasionalmente ed eccezionalmente rese dal lavoratore in occasione di turni di lavoro straordinari o effettuati durante di giorni di riposo; soltanto in quest'ultimo caso, laddove vengano in rilievo prestazioni il cui espletamento e condizionato dal discrezionale potere direttivo del datore di lavoro, la retribuzione non può costituire oggetto, da parte del lavoratore, di alcuna pretesa essendo la stessa condizionata all'effettivo svolgimento di quella prestazione.
Tuttavia – secondo la Cassazione - il giudice di appello avrebbe dovuto tenere conto della specifica natura delle mansioni proprie della figura professionale del macchinista e, sulla base di questa premessa, avrebbe dovuto individuare tutte le componenti accessorie del salario che erano “competenze strettamente collegate alla mansione svolta dal ricorrente (...) erogate per i mesi in cui vi è stata prestazione lavorativa”.
In altri termini, la Corte d’appello, al fine di pervenire al risarcimento integrale del danno, avrebbe dovuto tenere conto delle specifiche mansioni di inquadramento professionale del macchinista e scindere le componenti accessorie della retribuzione (fissa) correlate a prestazioni soltanto occasionali e derogatorie rispetto all'ordinario svolgimento di quelle mansioni dalle componenti accessorie della retribuzione (fissa) che, invece, essendo intimamente connaturate a quella particolare prestazione lavorativa, non sono da essa scorporabili.