In caso di successione di contratti a termine, vanno computati nel termine massimo di 36 mesi anche i contratti già conclusi prima dell'introduzione del comma 4 bis dell'art. 5 del d.lgs. n. 368/2001.
Questo il principio affermato dalla Cassazione nell’ordinanza 11 febbraio 2025, n. 3470.
La vicenda processuale trae origine dalla domanda proposta da un orchestrale del Teatro di Messina di accertamento della illegittimità del termine apposto ai contratti di lavoro stipulati per oltre quindici anni, per superamento del limite massimo di 36 mesi.
La normativa di riferimento
L'art. 5, comma 4-bis, D.Lgs. n. 368/2001, introdotto dalla Legge n. 247/2007, poi abrogato dal D.Lgs. n. 81/2015 stabiliva che "qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l'altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato”.
Ai sensi dell'art. 1, comma 43, legge n. 247/2007 “in fase di prima applicazione … a) i contratti a termine in corso alla data di entrata in vigore della presente legge continuano fino al termine previsto dal contratto, anche in deroga alle disposizioni di cui al comma 4-bis dell'articolo 5 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, introdotto dal presente articolo; b) il periodo di lavoro già effettuato alla data di entrata in vigore della presente legge si computa, insieme ai periodi successivi di attività ai fini della determinazione del periodo massimo di cui al citato comma 4-bis, decorsi quindici mesi dalla medesima data”.
Le conclusioni dalla Cassazione
La Corte d’Appello, nel decidere la controversia, aveva ritenuto che non fossero valutabili, al fine del computo del termine massimo di 36 mesi per la legittimità della reiterazione di contratti a tempo determinato, i periodi di lavoro tra l'1/1/1997 e il 15/9/2001, in quanto sottoposti al regime della legge n. 230/1962.
L’ordinanza in commento ha ritenuto non condivisibile tale ragionamento, posto che “non si tratta di valutare la legittimità dei termini apposti ai contratti di lavoro al tempo della loro stipulazione ai sensi della legge n. 230/1962, ma la legittimità o meno del superamento del termine massimo di durata fissato dalla legge in caso di successione di plurimi contratti a tempo determinato, con finalità di prevenzione della loro abusiva reiterazione”.
In altre parole, nella fattispecie, non è in discussione la legittimità delle condizioni legittimanti il ricorso alla clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro, ma la successione di contratti di tale natura tra le stesse parti, al fine di prevenire gli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato.
In questa prospettiva l’impiego nel settore artistico, legittimante il ricorso alla contrattazione a termine in maniera più diffusa, in relazione alla peculiarità dell’attività in questione, non consente l’uso improprio del susseguirsi dei contratti a termine.
L’ordinanza in commento, nel solco della giurisprudenza comunitaria (v. in particolare, la sentenza della Corte di giustizia, 25 ottobre 2018, causa C-331/17) ha ribadito che, se è vero che la programmazione annuale di spettacoli artistici comporta necessariamente, per il datore di lavoro, esigenze provvisorie in materia di assunzione, e quindi può costituire una "ragione obiettiva" per il ricorso al rinnovo dei contratti a termine, tuttavia, quest’ultima “si riferisce a circostanze precise e concrete che contraddistinguono una determinata attività” (in tal senso, Cass., sez. lav., 15 aprile 2019, n. 10480).
Pertanto, la sola natura temporanea degli spettacoli in programmazione, in assenza di qualsivoglia precisazione in ordine alla natura ed allo scopo dei singoli contratti e alla temporaneità delle esigenze che hanno reso necessario il ricorso all'assunzione a termine del lavoratore, non consente di non considerare i contratti conclusi nel vigore della disciplina di cui alla L. 230 del 1962 ai fini del rispetto del termine massimo di durata di trentasei mesi.
Su queste premesse, la Corte ha concluso che “vanno computati nel termine massimo di durata stabilito nell'ambito della disciplina della successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l'altro, i contratti già rientranti nel campo di applicazione dell'art. 1, lett. e), della legge n. 230/1962”.