Gli incidenti automobilistici causati dai cinghiali rappresentano un problema più rilevante di quanto si possa pensare. I quotidiani riportano sempre più spesso notizie nelle quali i protagonisti sono questi animali selvatici che, alla ricerca di cibo, si spingono all’interno dei centri abitati.
Si tratta, del resto, di un fenomeno che sta coinvolgendo moltissime città (Roma, Bari, Genova, e molte altre) tanto che alcune testate giornalistiche hanno parlato di una vera e propria invasione. Se pensiamo poi, che gli avvistamenti si accompagnano spesso ad incidenti automobilistici, in alcuni casi anche mortali, la necessità di dare risposte certe ed unitarie alle questioni che vengono in rilievo si mostra in tutta la sua urgenza.
Qual è, allora, il soggetto chiamato a rispondere dei danni in caso di incidente causato da animali selvatici? Quale criterio di imputazione della responsabilità risarcitoria occorre applicare?
Orbene, le risposte a queste, e ad altre, domande, hanno dato vita a differenti orientamenti giurisprudenziali di legittimità che la Corte di Cassazione ha recentemente tentato di ordinare, aprendo – probabilmente – la porta ad un intervento delle Sezioni Unite.
Il riferimento è alla sentenza n. 7969 del 20 aprile 2020 – resa all’esito di una controversia che aveva preso le mosse proprio dalla domanda di un cittadino diretta ad ottenere il risarcimento dei danni riportati dalla propria autovettura a seguito della collisione con un cinghiale avvenuta su una strada pubblica - nell’ambito della quale la Corte ha espressamente evidenziato la necessità di rimeditare la questione del fondamento della responsabilità per i danni causati dalla fauna selvatica protetta, per offrire un indirizzo chiaro ed univoco.
In passato, i danni causati da animali selvatici erano considerati sostanzialmente non indennizzabili, in quanto tutta la fauna selvatica era ritenuta res nullius.
La situazione è cambiata, in parte, dapprima con l’entrata in vigore della l. n. 968/1977 (che ha dichiarato la fauna selvatica, appartenente a determinate specie protette, patrimonio indisponibile dello Stato, tutelato nell’interesse della comunità nazionale ed ha assegnato le relative funzioni normative e amministrative alle Regioni), poi con la l. n. 157/1992 (che ha specificato che la predetta tutela riguarda le specie di mammiferi e di uccelli dei quali esistono popolazioni viventi stabilmente o temporaneamente in stato di naturale libertà nel territorio nazionale, con le eccezioni specificate, e che avviene anche nell’interesse della comunità internazionale, precisando le competenze affidate alle Regioni e alle Province).
Per quanto riguarda, nello specifico, i danni cagionati dalla fauna selvatica, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione si era consolidato l’indirizzo secondo il quale tale danno sarebbe risarcibile non in base alla presunzione stabilita nell’art. 2052 c.c. - inapplicabile alla selvaggina il cui stato di libertà è incompatibile con un qualsiasi obbligo di custodia da parte della pubblica amministrazione - ma solamente alla stregua dei principi generali della responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c., con le dirette conseguenze del caso anche in tema di onere della prova; ne consegue che tale orientamento richiedeva l’individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all’ente pubblico (cfr. Cass. n. 8788/91; Cass. n. 2192/96; Cass. n. 1638/2000; Cass. n. 10008/2003; Cass. n. 7080/2006; Cass. n. 27673/2008; Cass. n. 9276/2014; Cass. n. 5722/2019).
Del resto, si tratta di una tesi che ha superato anche l’esame della Corte Costituzionale la quale, con l’ordinanza del 4 gennaio 2001 n. 4, ha ritenuto non sussistere una irragionevole disparità di trattamento tra il proprietario di un animale domestico o in cattività – che risponde dei danni arrecati secondo il criterio di imputazione di cui all’art. 2052 c.c. – e la pubblica amministrazione, nel cui patrimonio sono ricompresi gli animali selvatici; secondo la Corte Costituzionale, infatti, questi ultimi soddisfano il godimento dell’intera collettività, e, dunque, i danni prodotti dagli stessi costituiscono un evento naturale del quale la comunità intera deve farsi carico secondo il regime ordinario di imputazione della responsabilità civile ex art. 2043 c.c.
Secondo l’impostazione originaria della Cassazione sopra ricordata, l’ente pubblico eventualmente responsabile per la colposa omessa adozione delle misure necessarie ad impedire i danni causati dagli animali selvatici è la Regione, in quanto ente titolare della competenza a disciplinare, sul piano normativo e amministrativo, la tutela della fauna e la gestione sociale del territorio, anche laddove i relativi compiti siano stati delegati alle Province (cfr., tra le molte altre, Cass. n. 467/2009; Cass. n. 4202/2011).
Tuttavia, in seguito a tale orientamento, sono state operate una serie di specificazioni che hanno finito per alterare il criterio di imputazione soggettiva della responsabilità in capo alla Regione. In alcune pronunce, si è affermato, ad esempio, che la responsabilità per i danni causati dagli animali selvatici non è sempre imputabile alla Regione, ma che deve, in realtà, essere imputata all’ente, sia esso Regione, Provincia, Ente Parco, Federazione o Associazione, a cui siano stati concretamente affidati, nel singolo caso, i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata (cfr. Cass. n. 18952/2017; Cass. n. 23151/2019).
In altri casi si è poi stabilito che la responsabilità extracontrattuale per danni provocati alla circolazione stradale da animali selvatici va imputata alla Provincia a cui appartiene la strada ove si è verificato il sinistro, in quanto ente al quale sono stati concretamente affidati poteri di amministrazione e funzioni di cura e protezione degli animali selvatici nell’ambito di un determinato territorio, e non già alla Regione, alla quale spetterebbe solo il potere normativo per la gestione e tutela di tutte le specie di fauna selvatica (Cass. n. 12808/2015).
Di fronte ad un quadro costituito da così vari orientamenti giurisprudenziali, la Corte di Cassazione, nella recente sentenza sopra citata, ha rilevato che, nella sostanza, si era affermato, in concreto, un regime della responsabilità civile per i danni causati dagli animali selvatici differenziato, regione per regione, regime di dubbia compatibilità sistematica con il principio, anch’esso di rilievo costituzionale, per cui la normativa regionale non può incidere sui rapporti di diritto privato.
Ecco, allora, che la Corte, nel pieno della sua funzione nomofilattica, ha cercato di offrire un indirizzo chiaro, prospettando soluzioni, per certi versi, senz’altro innovative.
In particolare, la Corte prende le mosse dalla constatazione secondo la quale l’incerto quadro interpretativo è stato determinato dalla questione di fondo costituita dalla scelta iniziale del criterio di imputazione della responsabilità, operata sul presupposto della impossibilità di estendere alla fauna selvatica il regime previsto dall’art. 2052 c.c., scelta giustificata essenzialmente sulla base dell’assunto secondo cui tale disposizione avrebbe riguardo esclusivamente agli animali domestici e non a quelli selvatici in quanto il criterio di imputazione espresso sarebbe basato sul “dovere di custodia” dell’animale da parte del proprietario o di chi lo utilizza per trarne utilità, custodia per natura inconcepibile per gli animali selvatici che vivono in libertà.
Sennonché, secondo la Corte, nell’art. 2052 c.c., non vi è alcun fondamento di tale assunto. Anzi:
Per quanto riguarda, poi, l’onere probatorio, secondo la Corte il danneggiato, in applicazione dell’art. 2052 c.c., deve allegare, e dimostrare, di aver subito un danno cagionato da un animale selvatico appartenente ad una specie protetta rientrante nel patrimonio indisponibile dello Stato. Graverà, infatti, sull’attore l’onere di dimostrare la dinamica del sinistro nonché il nesso causale tra la condotta dell’animale e l’evento dannoso subito.
Circa, invece, la prova liberatoria gravante sulla Regione, questa deve consistere, ai sensi dell’art. 2052 c.c., nella dimostrazione che il fatto sia avvenuto per caso fortuito. In sintesi, l’ente dovrà dimostrare che la condotta dell’animale selvatico “si sia posta del tutto al di fuori della sua sfera di possibile controllo, come causa autonoma, eccezionale, imprevedibile ed inevitabile del danno, e come tale sia stata dotata di efficacia causale esclusiva nella produzione dell’evento lesivo”; in altre parole, la Regione deve fornire la prova che si sia trattato di una “condotta che non era ragionevolmente prevedibile e/o che comunque non era evitabile”, anche mediante l’adozione delle più adeguate e diligenti misure di gestione e controllo della fauna, concretamente esigibili in relazione alla situazione di fatto (purché, peraltro, sempre compatibili con la funzione di protezione dell’ambiente e dell’ecosistema cui la stessa tutela della fauna è diretta).
Cosa succede, però, se la Regione ha delegato le proprie funzioni che qui rilevano ad altri enti?
Orbene, secondo la Corte, una tale eventualità non modifica, in relazione all’azione posta in essere dal danneggiato, il criterio di individuazione del cd. legittimato passivo che resta, in ogni caso, la Regione, quale ente cui spettano, in base alla Costituzione ed alle leggi statali, le competenze normative, le principali competenze amministrative, e comunque di programmazione, coordinamento e controllo, nonché i connessi poteri sostitutivi, per la tutela e la gestione della fauna selvatica, e che quindi, sul piano civilistico, rappresenta il soggetto che utilizza la fauna allo scopo di realizzare il fine di utilità collettiva della protezione dell’ambiente e dell’ecosistema e, quindi, che risponde, ai sensi dell’art. 2052 c.c., nei confronti dei terzi dei danni eventualmente causati dagli animali selvatici.
E, allora, alla stregua dei principi fatti propri dalla pronuncia più volte citata, il soggetto che si ritrova ad aver subito un danno a causa di un cinghiale sa di poter (e dover) ora rivolgere la propria domanda risarcitoria nei confronti della Regione. Spetterà poi alla Regione, eventualmente, rivalersi nei confronti dell’ente al quale spettava, in ipotesi, di porre in essere le misure adeguate di protezione omesse e che avrebbero impedito il danno.
Il tutto ovviamente, se la Corte di Cassazione, che ha cominciato a percorrere una strada nuova, non ripieghi poi su quella vecchia.