Divieto di licenziamento della lavoratrice in stato di gravidanza e grado della colpa

Camilla Maranzano
4 Marzo 2025

Nell’ordinanza n. 2586 del 3 febbraio 2025 la Cassazione ha ribadito che la “colpa grave” prevista dall’art. 54, comma 3, D.lgs. 151/2001 – norma che esclude l'operatività del divieto di licenziamento della lavoratrice in stato di gravidanza o di puerperio – è una colpa specifica e diversa (per il particolare connotato di gravità) da quella prevista dalla legge o dalla disciplina collettiva per generici casi di infrazione o di inadempimento sanzionati con la risoluzione del rapporto.

1. I fatti di causa

Una lavoratrice in stato di gravidanza veniva licenziata per giusta causa per aver impropriamente utilizzato i permessi previsti dalla L. 104/1992.

Il datore di lavoro, tramite una relazione investigativa ed alcune testimonianze, aveva accertato che la lavoratrice aveva dedicato le ore di permesso, piuttosto che all’assistenza del familiare, ad attività personali (come ad es. riparazione auto, acquisti personali, etc.).

I giudici di merito hanno ritenuto che il comportamento della lavoratrice fosse riconducibile all’ipotesi della colpa grave ex art. 54, co. 3, del D.Lgs. 151/2001, norma che esclude l'operatività del divieto di licenziamento della lavoratrice in stato di gravidanza o di puerperio.

Per i giudici di merito la giusta causa di licenziamento era supportata dal quadro probatorio, e la sua sussistenza escludeva la natura ritorsiva del licenziamento.

D’altra parte, non era emersa in giudizio alcuna correlazione tra lo stato di gravidanza della lavoratrice e il recesso. Il licenziamento era fondato su ragioni oggettive accertate prima della comunicazione della gravidanza.

La lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione affidato a sei motivi.

2. La decisione della Corte di Cassazione

In particolare, con il primo motivo di ricorso, che è stato ritenuto fondato dalla Cassazione, la ricorrente ha lamentato la violazione e falsa applicazione dell’art. 54, co. 3, lett. a), del D.Lgs. 151/2001, avendo la Corte d'Appello erroneamente assimilato la “colpa grave” prevista dalla norma alla giusta causa ordinaria, nonostante la prima costituisca una fattispecie autonoma che richiede una valutazione complessiva degli effetti del licenziamento sulla lavoratrice madre, anche in relazione alla gravidanza.

Secondo la ricorrente “la decisione impugnata non avrebbe tenuto conto dei principi sanciti dalla Corte Costituzionale (sent. n. 61/1991) sulla necessità di considerare il contesto e le conseguenze del licenziamento”.

Al fine di motivare l’accoglimento del primo motivo di ricorso, l’ordinanza in commento ha ricordato come da tempo la giurisprudenza abbia evidenziato che per accertare la colpa grave da parte della lavoratrice “non è sufficiente accertare la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo di licenziamento, ma è invece necessario (anche alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 61 del 1991) verificare - con il relativo onere probatorio a carico del datore di lavoro - se sussista quella colpa specificatamente prevista dalla suddetta norma e diversa (per l'indicato connotato di gravità) da quella prevista dalla legge o dalla disciplina collettiva per generici casi di infrazione o di inadempimento sanzionati con la risoluzione del rapporto; tale verifica deve essere eseguita tenendo conto del comportamento complessivo della lavoratrice, in relazione alle sue particolari condizioni psicofisiche legate allo stato di gestazione, le quali possono assumere rilievo ai fini dell'esclusione della gravità del comportamento sanzionato solo in quanto abbiano operato come fattori causali o concausali dello stesso (Cass. n. 16060/2004)”.

La sentenza impugnata, nell’individuare la colpa grave richiesta dall’art. 54, co. 3, del D.Lgs. 151/2001 si è invece limitata ad evidenziare che “il comportamento tenuto dalla ricorrente è caratterizzato dalla particolare intensità dell'elemento soggettivo”, desumendola dalle caratteristiche dei “luoghi visitati” (come carrozziere, centro analisi etc…) e dalla circostanza che “la ricorrente veniva accompagnata negli spostamenti, ..., ora dalla madre ora dal fidanzato”. Secondo il giudice di secondo grado, tali elementi esprimerebbero “la premeditazione delle condotte”.

Secondo la Cassazione, invece, i predetti elementi “non paiono sufficienti a delineare in maniera conforme ai principi ricordati, quella particolare gravità della colpa richiesta per superare il divieto di licenziamento della lavoratrice in stato di gravidanza previsto dall'art. 54, comma 3, lett. a) del D.Lgs. n. 151/2001”.

In conclusione, la Corte di Cassazione, in accoglimento del primo motivo di ricorso, ha cassato la sentenza di merito, ordinando al giudice del rinvio di svolgere il concreto accertamento di fatto sulla condotta tenuta dalla lavoratrice e di valutare se sussista la colpa così come delineata dai richiamati principi, “diversa, per l'indicato connotato di gravità, da quella prevista dalla disciplina generale e pattizia per i generici casi d'inadempimento del lavoratore sanzionati con la risoluzione del rapporto”.

Per leggere il testo integrale dell’ordinanza della Cassazione n. 2586 del 2025 clicca qui:

https://ildiritto.it/wp-content/uploads/2025/02/Cass-2586-2025.pdf

Per leggere il testo integrale della sentenza della Corte Costituzionale n. 61 del 1991 clicca qui: https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?param_ecli=ECLI:IT:COST:1991:61

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