Una recente pronuncia della Corte di Cassazione ha affrontato tale questione (ordinanza 2 agosto 2024, n. 21766).
La vicenda aveva preso le mosse dal caso di un lavoratore al quale era stato addebitato lo svolgimento, nei giorni di assenza per malattia, di attività extralavorative incompatibili con la malattia certificata ovvero di trovarsi in uno stato di salute compatibile con la prestazione lavorativa. La Corte d’appello aveva confermato la senza di primo grado che, a sua volta, aveva confermato l’ordinanza ex art. 1 co. 49, l. 92/2012 di rigetto della domanda di illegittimità del licenziamento.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dal lavoratore il quale aveva censurato la sentenza impugnata per aver questa ritenuto legittimi gli accertamenti investigativi disposti dalla datrice di lavoro.
In particolare, secondo la Corte, non vi sarebbe stata la denunciata violazione dei limiti entro i quali è consentito al datore di lavoro lo svolgimento di accertamenti investigativi. Gli accertamenti svolti, infatti, nel caso di specie, secondo la Cassazione, non avevano finalità di tipo sanitario, bensì “miravano a verificare se le plurime specifiche condotte extralavorative, poi contestate, fossero o meno compatibili con la malattia addotta dal lavoratore per giustificare l'assenza dal lavoro e dunque l'idoneità della predetta malattia a determinare uno stato di incapacità lavorativa”.
La Suprema Corte ha così richiamato il proprio orientamento che ha affermato la legittimità del controlli affidati ad agenzie investigative, anche al di fuori di locali aziendali, ove non aventi ad oggetto l’espletamento dell'attività lavorativa, e che ha sottolineato come le disposizioni dell’art. 5 St. Lav. (che vietano al datore di lavoro di svolgere accertamenti sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e lo autorizzano a effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti) non precludono al datore di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato d’incapacità lavorativa rilevante e, quindi, a giustificare l'assenza (Cass. n. 11697/2020, Cass. n. 15094/2018, Cass. n. 25162/2014, Cass. n. 6236/2001).
La sussistenza di una giusta causa di licenziamento è stata così confermata dalla Corte secondo la quale la valutazione svolta sul punto dal giudice di merito non sarebbe stata inficiata dalle censure articolate dal ricorrente. Questi, infatti, secondo la Cassazione, non avrebbe individuato “alcuno specifico contrasto con i criteri e principi desumibili dall'ordinamento generale e dalla coscienza sociale in relazione ai parametri astratti ai quali ha fatto riferimento il giudice di merito nel ritenere la configurabilità della giusta causa di licenziamento, come, viceversa, richiesto per la denunzia di violazione ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c. riferita alle norme richiamate in rubrica (Cass. n. 28492/2018, Cass. n. 7426/2018, Cass. n. 25144/2010, Cass. n. 7838/2005)”.
Anche la violazione del contratto collettivo, del pari lamentata dal lavoratore nel ricorso, è stata esclusa. Secondo la Corte, la lettura data dal giudice d’appello sarebbe corretta, laddove, con ragionamento congruo ed esaustivo, aveva escluso che il fatto addebitato potesse essere ricondotto tra le condotte sanzionabili con misure conservative, “non trattandosi di una semplice assenza dal servizio bensì di una condotta caratterizzata da un quid pluris, e, in particolare, dall’aver il lavoratore tenuto - in violazione delle regole che presidiano la disciplina e la diligenza del lavoro - un comportamento contrario allo stato di malattia ovvero dall'aver taciuto di trovarsi in uno stato compatibile con lo svolgimento dell'attività lavorativa”.
Il ricorso, come detto, è stato rigettato.