Con la sentenza del 1° dicembre 2022, n. 35416 la Corte di Cassazione ha espresso principi importanti in materia di danno biologico concentrando la sua attenzione sulle c.d. patologie ingravescenti.
1. - I fatti di causa
Il sig. Z.G. conveniva in giudizio l'Autorità di Sistema portuale del Mar Adriatico Settentrionale – Venezia al fine di ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a causa dell’inalazione di fibre di amianto durante lo svolgimento delle proprie mansioni presso il porto di Venezia, quale lavoratore portuale polivalente.
La predetta esposizione ad amianto, avvenuta presso il porto di Venezia dal 1963 fino al 1994, gli aveva causato un adenocarcinoma.
Contro la sentenza del Tribunale di Venezia che aveva accolto il ricorso e condannato l'Autorità al risarcimento del danno biologico temporaneo e permanente differenziale, ha proposto appello il sig. Z.G., chiedendo il riconoscimento del danno biologico temporaneo per il periodo 2012-2014, dell'invalidità a partire dal 9 gennaio 2014 e della liquidazione del danno non patrimoniale sulla base delle tabelle milanesi, nonché una nuova quantificazione delle spese di lite.
Il sig. Z.G. insisteva in particolare per una rideterminazione globale del quantum risarcibile sulla base di un dedotto aggravamento della patologia a partire dal 2016.
La Corte d'appello di Venezia accoglieva parzialmente l’appello.
L'Autorità ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza di secondo grado lamentando la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., nonché degli artt. 1226 e 2056 c.c. in quanto la corte territoriale aveva errato nel liquidare un danno da invalidità permanente, nonostante la patologia di Z.G. fosse ancora in atto, sul presupposto che la malattia fosse ormai stabilizzata.
2. – La ricostruzione giurisprudenziale in materia di invalidità temporanea e permanente
La Corte di Cassazione nella sentenza in commento ha ricordato che per danno biologico deve intendersi “la lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito (art. 138, comma 2, lett. a), ed D.Lgs. n. 209 del 2005 art. 139, comma 2)”.
All’interno di tale categoria la giurisprudenza (Cass., Sez. 3, n. 26303 del 17 ottobre 2019) ha distinto i postumi invalidanti dall’inabilità temporanea.
I postumi invalidanti si qualificano “come inemendabili per la loro natura permanente” e ciò in ragione “del loro collocarsi cronologicamente in un tempo successivo rispetto ad un pregresso diverso stato patologico”.
L’inabilità temporanea consiste in quel periodo di incapacità per il soggetto leso ad attenderealle attività della vita quotidiana. Si parla di inabilità ‘totale’ quando tale periodo di incapacità è riferito a qualsiasi attività della vita quotidiana. Si parla invece di inabilità ‘parziale’, quando è limitato soltanto ad alcune attività.
L’inabilità è una “situazione patita dal soggetto, a causa della lesione della salute, prima di essere ritenuto dai medici clinicamente guarito” e coincide “con il periodo di tempo occorrente per la somministrazione delle cure necessarie a ristabilire il paziente e per il suo completo recupero psicofisico, ed al quale consegue il ripristino della condizione di salute antecedente il sinistro (qualora dalla terapia non esitino condizioni menomative) ovvero la definitiva stabilizzazione delle condizioni invalidanti (qualora al termine delle terapie esitino menomazioni o condizioni peggiorative inemendabili)”.
Ai fini della liquidazione del danno biologico, la giurisprudenza ha più volte ribadito che sia il pregiudizio da invalidità permanente che quello da invalidità temporanea devono formare oggetto di autonoma valutazione.
Il pregiudizio da invalidità permanente decorre “dal momento della cessazione della malattia e della relativa stabilizzazione dei postumi”.
Il pregiudizio da invalidità temporanea deve essere riconosciuto “ove il danneggiato si sia sottoposto a periodi di cure necessarie per conservare o ridurre il grado di invalidità residuato al fatto lesivo o impedirne l’aumento, inteso come privazione della capacità psico-fisica in corrispondenza di ciascun periodo e in proporzione al grado effettivo di inabilità sofferto”
La Suprema Corte nella sentenza n. 5197/2015 ha affermato che l'invalidità permanente “costituisce uno stato menomativo, stabile e non remissibile, che si consolida soltanto all'esito di un periodo di malattia” specificando che lo stesso “non può, quindi, sussistere prima della sua cessazione”.
L’invalidità permanente è dunque per insegnamento consolidato suscettibile di valutazione soltanto dal momento in cui, dopo il decorso e la cessazione della malattia, l'individuo non abbia riacquistato la sua completa validità con relativa stabilizzazione dei postumi con la conseguenza che “il danno biologico di natura permanente deve essere determinato dalla cessazione di quello temporaneo, giacché altrimenti la contemporanea liquidazione di entrambe le componenti comporterebbe la duplicazione dello stesso danno (Cass., Sez. 3, n. 26897 del 19 dicembre 2014)”.
3. – Invalidità permanente da stabilizzazione del nuovo status caratterizzato dalla inemendabilità delle peggiorate condizioni di salute.
La Corte rileva poi come in secondo grado era stato riconosciuto il danno da lesione permanente della salute pur in presenza di una malattia (neoplasia polmonare) che non era ancora venuta meno e che si trovava in una fase di remissione clinica che corrispondeva ad una stabilizzazione meramente temporanea.
In seguito al decesso del sig. Z.G., si erano costituiti i suoi eredi, rilevando come l'accoglimento del ricorso proposto dall’Autorità avrebbe portato all’esito irragionevole per il quale “il malato non guarito non potrebbe ottenere il danno biologico successivo alla sua stabilizzazione e che, quindi, proprio la stabilizzazione dovrebbe essere equiparata alla guarigione, in presenza di malattie che, come le neoplasie polmonari dovute all'avere respirato particelle di amianto, possono definirsi ad evoluzione, con alta probabilità o con certezza, sfavorevole”.
La risoluzione della questione sottoposta alla Corte coinvolge il concetto di “malattia” e i suoi “esiti”.
La malattia consiste “nella lesione inferta alla integrità di una persona che determina un'alterazione in peius delle pregresse condizioni psicofisiche del soggetto”.
Tale nuovo stato, continua la Corte, all'esito del periodo di convalescenza, è destinato a cessare o perché si verifica la guarigione del malato (con conseguente “ripristino delle condizioni di salute anteriori o comunque senza reliquati invalidanti”) o perché si verifica la stabilizzazione del nuovo “status caratterizzato dalla inemendabilità delle peggiorate condizioni di salute (invalidità permanente)” o ancora perché vi è laperdita totale di capacità biologica del soggetto conseguente al decesso.
Ciò premesso, secondo la Corte l’affermazione in forza della quale si dice che “è possibile individuare un danno biologico permanente esclusivamente dopo il decorso e la cessazione della malattia” deve essere intesa nel senso che, “ad assumere rilievo, è ‘la stabilizzazione del nuovo status caratterizzato dalla inemendabilità delle peggiorate condizioni di salute’ dopo il periodo di tempo occorrente per la somministrazione delle cure necessarie a ristabilire il paziente e per il suo completo recupero psicofisico”.
Nel caso invece di guarigione, quest’ultima può giustificare solo il risarcimento di un danno biologico temporaneo.
Nell’ultimo caso riguardante l’ipotesi del decesso, avvenuto senza stabilizzazione, risulta invece rilevante il c.d. danno terminale (“forma lessicale descrittiva di un danno biologico temporaneo che consiste nella incapacità del soggetto di attendere alle comuni attività quotidiane ed allo svolgimento delle relazioni sociali per un tempo limitato, in quanto destinato a cessare, in considerazione della natura letale della lesione, con l'exitus, ossia con la definitiva estinzione della persona fisica”).
In relazione al danno terminale, la Corte precisa che per la sua liquidazione può essere utilizzato o “il criterio equitativo puro o le apposite tabelle (in applicazione dei principi di cui alla sentenza Cass., Sez. 3, n. 12408 del 7 giugno 2011), ma con il massimo di personalizzazione in considerazione della entità e intensità del danno”.
Il danno biologico da postumi invalidanti di natura permanente deve essere tenuto distinto dal danno terminale in quanto quest’ultimo “esclude per antonomasia una guarigione e prelude al prossimo decesso”. Più in particolare, nel c.d. danno terminale “il termine finale della condizione patologica transeunte.. si identifica non nella intervenuta stabilizzazione delle minorate condizioni di capacità psicofisica, ma nell'evento-morte e prescinde da qualsiasi futura aspettativa di vita del soggetto danneggiato”.
Diversa ancora è l’ipotesi del c.d. danno catastrofale che consiste “nello stato di sofferenza spirituale per intima paura o patema d'animo sopportato dalla vittima nell'assistere alla progressiva distruzione della propria condizione esistenziale verso l'ineluttabile fine-vita. In questo caso, l'accertamento in fatto dell'an, ossia della esistenza del danno-conseguenza, presuppone la prova della cosciente e lucida percezione, da parte del soggetto leso, dell'ineluttabilità della propria fine”
Il risarcimento di tale danno deve essere escluso “laddove la morte sia sopraggiunta nella immediatezza delle lesioni inferte alla vittima, o sia pervenuta dopo un apprezzabile lasso di tempo ma con soggetto leso inconsapevole o che versava in stato di incoscienza (Cass., Sez. 3, n. 7126 del 21 marzo 2013; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 6754 del 24 marzo 2011)”.
4. – Il caso delle patologie ingravescenti
Dopo un’attenta analisi, la Corte arriva ad affrontare la questione in esame, concentrando la sua attenzione su quelle patologie in cui l’evento morte costituisce un esito astrattamente possibile, ma del tutto incerto nel suo accadimento al momento del perfezionamento della fattispecie illecita.
Vi sono patologie, chiarisce la Corte, che “dopo un primo evento lesivo, determinano ulteriori conseguenze pregiudizievoli, le quali, però, costituiscono un mero sviluppo ed un aggravamento del danno già insorto e non la manifestazione di una lesione nuova ed autonoma rispetto a quella manifestatasi con l'esaurimento dell'azione del responsabile. In simili situazioni, dopo la somministrazione delle cure necessarie a ristabilire il paziente, si è avuta "la stabilizzazione del nuovo status caratterizzato dalla inemendabilità delle peggiorate condizioni di salute", ma è incontestabile che il danno biologico permanente rimanga tale, ancorché gli effetti dell'illecito ben possono accentuarsi”.
Il fenomeno della menomazione, prevedibile, ma incerta nella sua verificazione futura, è specificamente considerato nei bare'mes della medicina-legale che determinano il grado di invalidità biologica.
Più semplicemente, “più alta è la probabilità di esito infausto, maggiore sarà il grado di invalidità”.
Siffatte patologie comportano per il paziente, in futuro, un maggiore rischio di peggioramento del suo stato di salute, rispetto a quelle patologie che, invece, determinano menomazioni stabilizzate.
Tale maggior rischio di aggravamento evolutivo della stessa patologia (anche alla morte), od anche di esposizione alla contrazione di altre malattie non costituisce una conseguenza-dannosa distinta rispetto a quelle pregiudizievoli per la salute riconducibili a quella medesima patologia, ma contribuisce ad integrare il "complessivo stato invalidante" che caratterizza la condizione biologica di quel soggetto e che si atteggia per il suo carattere ingravescente che "può" portare in futuro (secondo il giudizio di prevedibilità espresso dalle conoscenze medico-scientifiche del tempo) ad ulteriori complicanze od alla prematura morte”.
La Corte poi specifica che è del tutto irrilevante se tale rischio si avveri o meno nel futuro in quanto tale incertezza “non fa venire meno la maggiore gravità della invalidità biologica accertata al tempo dell'evento lesivo della salute (Cass., Sez. 3, n. 29492 del 14 novembre 2019)”.
Nel caso esaminato cioè quello di patologie dette ingravescenti, in cui non può escludersi anche un possibile futuro esito letale della malattia, secondo la Corte, non viene in questione un danno terminale o un danno biologico da inabilità temporanea, ma “un danno biologico da invalidità permanente, atteso che i bare'mes considerano nella scala dei gradi di invalidità il maggiore rischio, cui è esposto il paziente, di subire anche a distanza di tempo - una ripresa e sviluppo del fattore patogeno, che potrebbe condurre al decesso, ovvero di incorrere in ulteriori complicanze incidenti peggiorativamente sullo stato di salute, eziologicamente riconducibili all'originaria patologia”.
L’aggravamento non determina la insorgenza di un nuovo diritto risarcitorio, ma “costituisce la mera concretizzazione di un rischio connesso alla patologia, la cui possibilità di accadimento era stata già considerata nella stima della ridotta validità biologica del soggetto residuata dopo la lesione”
Nella sentenza in commento si passa poi ad esaminare il diverso caso in cui al tempo dell'accertamento del danno, l'ulteriore evento dannoso (manifestatosi a distanza di tempo della lesione, anche se riconducibile eziologicamente alla stessa) non era prevedibile in quanto sconosciuto alla scienza medica, e quindi non considerato dai bare'mes.
In tale caso, afferma la Corte, l'evento dannoso successivamente verificatosi va ad “incidere sul perfezionamento di tutti gli elementi della fattispecie illecita.. rendendo solo successivamente conoscibile la relazione di derivazione causale del "nuovo" danno dalla originaria lesione della salute, legittima la proposizione di una distinta domanda risarcitoria”.
Dopo la predetta attenta ricostruzione giurisprudenziale della materia la Corte ritiene che nel caso del sig. Z.G. il giudice di merito abbia correttamente qualificato “il danno alla salute da esposizione all'amianto, derivato da patologia ingravescente, quale danno biologico permanente, liquidandolo applicando le corrispondenti tabelle milanesi”.
La Corte ha ritenuto irrilevante il decesso del danneggiato dopo la pronuncia di appello, dovendosi ritenere, in assenza di allegazione contraria, che il rischio dell'evento morte fosse già ricompreso nei bare'mes utilizzati.
5. – La contestazione sulla liquidazione del danno risarcibile.
In ultimo, il ricorrente ha contestato la misura del danno risarcibile essendo stato parametrato sulla speranza di vita media di un individuo della medesima età in Italia, mentre nel caso di specie, secondo l’Autorità, occorreva tenere conto del fatto che la speranza di vita di un paziente affetto da una grave patologia tumorale è inferiore e non paragonabile a quella di una persona comune.
Dopo aver premesso che i bare'mes tengono generalmente conto anche delle possibilità evolutive della patologia e della maggiore o minore prevedibilità delle complicanze in rapporto alla peculiare condizione di salute riscontrata nel soggetto al momento delle indagini diagnostiche, la Cassazione ha ritenuto di non dover accogliere la doglianza.
Il c.d. rischio latente (vale a dire la possibilità che i postumi, per la loro gravità, provochino un nuovo e diverso pregiudizio consistente in una ulteriore invalidità o nella morte ante tempus), secondo il giudice di legittimità, “costituisce una lesione della salute del danneggiato, da considerare nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente secondo le indicazioni della medicina legale”.
La Corte afferma che qualora il grado di invalidità sia stato determinato tenendo in conto detto rischio, allora il danno biologico va liquidato in relazione alla concreta minore speranza di vita del danneggiato e non della durata media della vita.
Se, invece, il rischio latente non è stato incluso nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente (o perché non contemplato dal bare'me utilizzato o per omissione del consulente), “il giudice deve tenerlo in considerazione maggiorando la liquidazione in via equitativa, anche scegliendo il valore monetario del punto di invalidità previsto per una persona della medesima età della vittima e, dunque, in base alla durata media nazionale della vita, anziché alla speranza di vita del caso concreto (Cass., Sez. 3, n. 26118 del 27 settembre 2021)”.
Con riferimento all'inabilità permanente, il giudice di secondo grado aveva seguito i principi di cui sopra ritenendo che il dato circa l'aspettativa di vita è in via generale considerato in dipendenza del fattore età e può essere valorizzato, "anche rispetto ad un quadro potenzialmente o probabilmente ingravescente della patologia", purché non siano elisi "i presupposti della risarcibilità della condizione invalidante". In particolare, a pagina 21, il giudice d'appello ha tenuto conto "della specifica situazione soggettiva indotta dalla persistenza della patologia la cui incidenza opera alla luce delle superiori considerazioni circa l'adeguamento del risarcimento all'aspettativa di vita in soggetto anziano e malato".
6. - I principi di diritto.
A conclusione della sentenza in commento la Corte di Cassazione ha pronunciato i seguenti principi di diritto:
Sullo stesso argomento v. il commento al seguente link: https://www.studioclaudioscognamiglio.it/la-corte-di-cassazione-e-lapplicazione-delle-tabelle-milanesi-per-la-liquidazione-del-danno-non-patrimoniale-quale-futuro/