Affinché possa dirsi rispettato l’obbligo di repêchage, il datore di lavoro è obbligato a formare il lavoratore per mansioni inferiori? La questione è stata posta all’esame della Corte di Cassazione da alcuni lavoratori il cui licenziamento, per giustificato motivo oggettivo, era stato reputato legittimo dalla Corte d’appello (ord. 20 giugno 2024, n. 17036). I ricorrenti avevano lamentato la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 legge n. 604/1966 e 2103 c.c., per avere la Corte territoriale erroneamente escluso l'obbligo di repêchage datoriale anche per mansioni inferiori, in violazione “dell’obbligo di verificare se sia possibile un demansionamento rispondente all’interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione”.
La Cassazione non ha condiviso la critica dei lavoratori sulla base del seguente principio di diritto: in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’obbligo datoriale di repêchage, anche ai sensi del novellato art. 2103, 2° co. c.c., “è limitato alle mansioni inferiori compatibili con il bagaglio professionale di cui il lavoratore sia dotato al momento del licenziamento, che non necessitino di una specifica formazione che il predetto non abbia”.
Come viene ricordato nella pronuncia, anche prima della novellazione dell’art. 2103 c.c., la Corte aveva escluso l’esistenza di un obbligo del datore di lavoro di formazione professionale ed aveva riferito l’obbligo di repêchage limitatamente alle attitudini ed alla formazione di cui il lavoratore era dotato al momento del licenziamento (Cass. 13 agosto 2008, n. 21579; Cass. 8 marzo 2016 n. 4509; Cass. 6 dicembre 2018, n. 31653), “non essendo il primo tenuto a fornire al secondo un'ulteriore o diversa formazione per salvaguardare il suo posto di lavoro” (Cass. 11 marzo 2013, n. 5963). In questo contesto, era stata evidenziata la necessità di un bilanciamento del diritto al mantenimento del posto del lavoratore con quello del datore di lavoro a perseguire un'organizzazione aziendale produttiva ed efficiente.
Questo principio – ha ricordato la Suprema Corte - ha orientato il legislatore delegante la novellazione dell'art. 2103 c.c. (ad opera dell'art. 3, primo comma d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni”), che all'art. 1, settimo comma, punto e) della legge 10 dicembre 2014, n. 183, per la “revisione della disciplina delle mansioni, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale individuati sulla base di parametri oggettivi”, ha fissato il principio direttivo del contemperamento dell'interesse dell’”impresa all'utile impiego del personale con l'interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche, prevedendo limiti alla modifica dell'inquadramento”. Questo, secondo la Corte, sia pure non esplicitamente recepito dalla norma delegata, ne costituisce ratio interpretativa, da declinare nelle diverse ipotesi di mutamento delle mansioni nella prestazione lavorativa.
Nella vicenda di specie, nella quale vi era stato l’esercizio dello ius variandi datoriale in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali, incidente sulla posizione del lavoratore (art. 2103, 2° co., c.c.), di natura unilaterale e non concordata (come nella diversa ipotesi di stipulazione di un patto di demansionamento negoziale ai sensi dell’art. 2103, 6° co. c.c.), il principio da applicare era quello, sopra ricordato, di obbligo di repêchage limitatamente alle attitudini ed alla formazione di cui il lavoratore sia dotato al momento del licenziamento (così anche Cass. 19 aprile 2024, n. 10627).
A dire della Cassazione, nel caso affrontato nella pronuncia in esame, la Corte territoriale, in esatta applicazione di tale principio di diritto, aveva accertato in fatto l’incapacità dei lavoratori licenziati allo svolgimento delle mansioni inferiori, in quanto sprovvisti di un idoneo bagaglio professionale che avrebbe potuto essere ottenuto solo a seguito di un percorso di riqualificazione. Secondo la Suprema Corte, tale accertamento, congruamente argomentato, insindacabile in sede di legittimità, era stato comunque contestato dai lavoratori in modo generico.
Il ricorso dei lavoratori è stato così rigettato.