Un lavoratore era stato licenziato disciplinarmente perché, sebbene fosse assente dal lavoro per infortunio, era risultato avere svolto attività lavorativa nel bar di sua proprietà. Il caso, affrontato recentemente dalla Corte di Cassazione, si è concluso con un’ordinanza (n. 23747 del 4 settembre 2024) che ha confermato, nella sostanza, il diritto del lavoratore ad essere reintegrato nel posto di lavoro. E, a condurre a questa conclusione, sono state le stesse immagini dell’attività investigativa svolta dal datore che erano state poste alla base della contestazione e, poi, della sanzione, disciplinare.
La Corte ha risolto la questione richiamando i principi di diritto, consolidati nella propria giurisprudenza, secondo cui, in materia di licenziamento disciplinare intimato per lo svolgimento di altra attività, lavorativa o extralavorativa, durante l'assenza per malattia del dipendente, grava sul datore di lavoro la prova che la malattia in questione sia simulata ovvero che la predetta attività sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio del dipendente medesimo. Questo perché l’art. 5 della L. n. 604 del 1966 pone a carico del datore di lavoro l’onere della prova di tutti gli elementi di fatto che integrano la fattispecie che giustifica il licenziamento e, dunque, “di tutte le circostanze, oggettive e soggettive, idonee a connotare l'illecito disciplinare contestato e (Cass. n. 26496/2018) secondo cui lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell'ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio "ex ante" in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio”.
Secondo la Cassazione, nel caso di specie, le statuizioni della pronuncia gravata erano in linea, in punto di diritto, con i suddetti principi in tema di onere della prova. In punto di fatto, invece, osserva la Corte, il giudice d’appello aveva rilevato, attraverso l'esame delle prove prodotte dal datore di lavoro (attività investigativa consistita nell'avere piazzato una videocamera puntata sull'ingresso del bar; in argomento si veda, su questo sito, Gli accertamenti investigativi svolti quando il lavoratore è in malattia sono legittimi?) che, nella maggior parte dei fotogrammi, si notava il lavoratore svolgere attività del tutto prive di rilevanza. Dunque, per la Corte territoriale, si trattava di “azioni insignificanti”, ai fini di pregiudicare o ritardare la guarigione ed il rientro in servizio, poiché si sarebbe trattato di attività "lavorative" svolte a distanza di circa sette mesi dall'infortunio e a pochi giorni dalla fine del periodo di diagnosticata inabilità.
Nel respingere anche l’ulteriore censura sollevata dalla Società, la Corte ha anche rammentato il - noto e fondamentale - principio in virtù del quale la giusta causa di licenziamento, quale fatto che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto, è una nozione “che la Legge - allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo - configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama”.
La disapplicazione di tali specificazioni – rammenta la Corte – è, come più volte precisato - deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli "standards", conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale.
Nel caso in esame, ritenute inammissibili tutte le doglianze riguardanti la ricostruzione e le modalità della vicenda in fatto, con specifico riferimento alla censura concernente la asserita violazione dell’art. 2119 c.c., la Cassazione ha condiviso l'assunto della Corte territoriale la quale, proprio sulla base delle risultanze istruttorie acquisite, aveva ritenuto irrilevante, come si è detto, per la sua inconsistenza, la condotta posta in essere dal lavoratore in relazione all'addebito di avere pregiudicato e/o ritardato la guarigione ed il rientro in servizio.