Con la pronuncia n. 12321/2022 la Cassazione ha colto l’occasione per ribadire alcuni importanti principi di diritto in materia di licenziamento disciplinare intimato per fatti che, al contempo, sono oggetto di accertamento da parte dell’Autorità giudiziaria penale.
E così, con riferimento al principio di consunzione del potere disciplinare, riassunto nel noto brocardo latino ne bis in idem, la Cassazione ha ribadito la regola in base alla quale il datore di lavoro non può esercitare due volte il potere disciplinare per uno medesimo fatto, anche se quel fatto, in un secondo momento, assume una configurazione giuridica – quale potrebbe essere la sopravvenuta rilevanza penale – che originariamente non possedeva.
In punto di onere della prova, è ribadito il principio per cui “il giudice civile può utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale già definito”, senza che sia necessaria la preventiva acquisizione degli atti del procedimento penale, potendo anzi bastare le sole risultanze della sentenza penale. Nel caso in cui invece la sentenza penale non sia passata in giudicato, benché “non faccia stato nel giudizio civile circa il compiuto accertamento dei fatti materiali formanti oggetto del giudizio penale”, essa costituisce in ogni caso una fonte di prova dalla quale il giudice può trarre elementi di giudizio “su dati e circostanze ivi acquisiti con le garanzie di legge”.
Per quel che riguarda, inoltre, il principio di immediatezza della contestazione disciplinare, la Suprema Corte ribadisce il consolidato orientamento a mente del quale, nel caso in cui il fatto disciplinarmente rilevante presenti anche rilievo penale, non può ritenersi che il principio dell’immediatezza della contestazione sia leso dalla scelta del datore di lavoro di attendere, al fine di muovere la contestazione ex art. 7 L. n. 300/1970, l’esito degli accertamenti svolti in sede penale, ben potendo egli trarre da tale esito la ragionevole sussistenza dei fatti disciplinarmente rilevanti.
Infine, viene affermato che l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha una valenza meramente esemplificativa, così che, stante la nozione legale di giusta causa prevista dall’art. 2119 c.c., ben può il giudice di merito ritenere integrata la anzidetta causale di licenziamento nel caso di “grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile”, ipotesi, quest’ultima, che non rende nemmeno necessaria l’affissione del codice disciplinare nei locali aziendali, stante la violazione da parte del lavoratore “di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione”.