Una recente sentenza (la numero 15957/2024) della Cassazione parrebbe prospettare nuove e più ampie ipotesi di tutela del diritto della salute del lavoratore sul luogo di lavoro. Tale sentenza, a dire il vero, si colloca nel solco già tracciato da Cass. n. 3822/2024, Cass. n. 2084/2024; Cass. n. 2870/2024; Cass. n. 3791/2024; Cass. n. 3856/2024; Cass. n. 4664/2024.
Passando all’analisi della pronuncia, è noto che l’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di adottare tutte “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. L’inadempimento da parte del datore di lavoro di tale obbligo è fonte di responsabilità risarcitoria, ovviamente in presenza di un danno alla salute del lavoratore che in giudizio si provi essere sussistente e causalmente collegato con il predetto inadempimento.
Fermo quanto sopra, il mobbing è una fattispecie di creazione giurisprudenziale che ricorre in presenza di una pluralità di condotte persecutorie, o comunque pregiudizievoli per la salute del lavoratore, intenzionalmente e sistematicamente adottate dal datore di lavoro (o dai suoi rappresentanti) ed accomunate dall’intendimento di perseguitare, o di isolare dal contesto lavorativo, il lavoratore che ne è vittima.
Si è soliti distinguere altresì tra mobbing verticale e mobbing orizzontale: il primo ricorre quando le condotte lesive del diritto alla salute sono poste in essere da colui/coloro che, nel contesto organizzativo aziendale, è/sono gerarchicamente sovraordinato/i al lavoratore mobbizzato; il secondo invece ricorre quando le predette condotte sono attuate da colleghi gerarchicamente pari ordinati al lavoratore. In quest’ultimo caso, il datore di lavoro è responsabile in quanto non ha impedito che tali condotte venissero poste in essere in danno del lavoratore.
Pertanto, ed in sintesi, affinché possa configurarsi una fattispecie di mobbing sono necessari un elemento oggettivo (pluralità di condotte lesive adottate persistentemente) e un elemento soggettivo, rappresentato dall’intenzione di nuocere alla salute del lavoratore.
Con la sentenza n. 15957/2024 la Suprema Corte ha chiarito tuttavia che “un ambiente di lavoro stressogeno è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela al diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087 c.c.”.
Pertanto, come già chiarito dalla Cassazione con la pronuncia n. 3822/2024 (https://www.studioclaudioscognamiglio.it/ambiente-di-lavoro-stressogeno-puo-essere-fonte-di-responsabilita-risarcitoria-per-il-datore-di-lavoro/), anche nel caso in cui non potessero ravvisarsi gli estremi di una fattispecie di mobbing, il Giudice è tenuto a “valutare e accertare l’eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere anche solo colposamente omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute del ricorrente”, così riproducendo lo schema della responsabilità colposa del datore di lavoro (fonte per il medesimo di obbligo risarcitorio) che ricorre nel caso in cui quest’ultimo abbia colpevolmente tollerato, e quindi non abbia tentato di rimuovere, una condizione di lavoro lesiva della salute del lavoratore (si pensi ad un inquinante diffuso nell’aria dell’ambiente di lavoro). Anche a prescindere dall’intento persecutorio, quindi, il datore di lavoro è comunque “tenuto ad evitare situazioni stressogene che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità frustrazione personale o professionale” possano arrecare un danno alla salute del lavoratore (sul punto si vedano Cass. n. 18164/.2018 e Cass. 7844/2018).
Come accennato, quindi, si prospettano nuove ipotesi in cui il danno alla salute subito dal lavoratore può assumere rilevanza sul piano risarcitorio.