Se il lavoratore assume che un’attività di per sé legittima si sia in concreto svolta secondo modalità che hanno determinato un danno, sulla base di quali riferimenti normativi può chiedere il relativo risarcimento al datore?
In tali ipotesi, è indubbio che, perseguendosi un risarcimento quale conseguenza non di fattori ‘esogeni’, bensì per effetto in sé dell’attività lavorativa, quello che viene addotto è l'inadempimento datoriale all’obbligodi garantire che lo svolgimento del lavoro non sia fonte di pregiudizio indebito, nel senso di eccedente l’usura psicofisica connaturata all’esecuzione di quell’attività.
Come è noto, in ambito di responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c., il lavoratore ha l’onere di provare l’esistenza del danno subito, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro.
Tale assetto di oneri di allegazione e di prova deve essere calibrato nelle ipotesi del c.d. superlavoro, nei quali la nocività consiste nello svolgimento stesso della prestazione.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione, nell’ambito di un sentiero tracciato da oltre vent’anni, ha affrontato le questioni sottese a tale fattispecie, descrivendo, e risolvendo, le relative problematiche.
Tra le più recenti, si segnala l’ordinanza n. 34968 del 28 novembre 2022 che offre numerosi spunti di approfondimento particolarmente interessanti.
In tale pronuncia, la Corte ha preso le mosse dall’affermazione secondo la quale l’obbligazione di sicurezza si materializza in un “intreccio indissolubile” di fattori di fare e di non fare, che, però, va colto nella sua unitarietà come “dovere di garantire che lo svolgimento del lavoro non sia fonte di pregiudizio per il lavoratore e quindi come obbligazione di fare consistente nell'obbligo di attribuire, pretendere e ricevere dal lavoratore una qualità e quantità di prestazione che sia coerente "con la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica", in modo che non derivi pregiudizio alla "integrità fisica" ed alla "personalità morale del lavoratore”.
Ed il caso del superlavoro (affrontato già da Cass. 14 febbraio 1997, n. 8267), secondo la Corte, manifesta in modo evidente tale intreccio, in quanto esso può intercettare profili violativi di obblighi di astensione (dal richiedere prestazioni eccessive), ma anche di obblighi positivi (non avere impedito lo svolgimento del lavoro con quelle modalità ed averne anzi ricevuto - vedi. Cass. 8 maggio 2014, n. 9945 - gli effetti produttivi utili).
Dunque, il lavoratore al quale sia stato richiesto un lavoro eccedente la tollerabilità, per eccessiva durata o per eccessiva onerosità dei ritmi, lamenta, nella sostanza, un inesatto adempimento a tale obbligo di sicurezza.
Ne consegue, in punto di distribuzione degli oneri probatori, che:
Nel caso affrontato nell’ordinanza sopra citata, la Corte ha ritenuto errata l’affermazione della sentenza di secondo grado che aveva ritenuto che non fosse stata fornita la prova delle violazioni imputate al datore, alla luce della mancata indicazione di una specifica norma a fondamento dell’inadempimento.
Secondo la Cassazione, infatti, tale assunto è errato per due profili.
Da un lato, non si può imporre al lavoratore di individuare la violazione di una specifica norma prevenzionistica (in questo senso, si veda anche ord. Cass. 25 luglio 2022, n. 23187), ancor meno quando, adducendo la ricorrenza di prestazioni rese oltre la tollerabilità, viene dedotto un inesatto adempimento all’obbligo di sicurezza, “indubbiamente onnicomprensivo e che non necessita di altre specificazioni, pur traducendosi poi esso anche in violazione di disposizioni antinfortunistiche”.
Dall’altro, il ragionamento del Giudice territoriale avrebbe condotto a decidere la causa imputando carenze documentali al lavoratore, sebbene tali profili attenessero, in realtà, alla prova liberatoria posta a carico del datore.
Inoltre, in quel caso, secondo la Cassazione, il nesso eziologico tra l’infarto patito dal lavoratore e l’attività lavorativa in concreto svolta era pacifico ed attestato dal riconoscimento dell’equo indennizzo per la causa di servizio. È evidente, infatti, che allorquando il danno derivi dalla denuncia di un superlavoro, il nesso causale riconosciuto per la causa di servizio non può che essere identico a quello per l’azione di danno, quando le due pretese riguardano la stessa attività che risulti così svolta (vedi anche Cass. 23187/2022, cit.), spettando al datore fornire la prova liberatoria dell’inesistenza di un suo inadempimento.
In argomento si segnala anche Troppe ore di lavoro straordinario? Al lavoratore spetta il risarcimento del danno, nonché La mancata fruizione del riposo giornaliero e settimanale può essere fonte di danno non patrimoniale per il lavoratore.