Impugnazione del licenziamento e incapacità naturale del lavoratore licenziato: alla Corte Costituzionale spetterà la valutazione di legittimità dell’art. 6 l. 604/66

Maria Santina Panarella
11 Settembre 2024

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 4, 32, 35, 11, 117 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 della legge 604/66 nella parte in cui, nel prevedere che  “Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch'essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale,…” fa decorrere, anche nei casi di incolpevole incapacità naturale del lavoratore licenziato, processualmente accertata e conseguente alle sue condizioni di salute, il termine di decadenza dalla ricezione dell’atto anziché dalla data di cessazione dello stato di incapacità.

Nell’ambito di una interessantissima ordinanza (n. 23784/2024 pubblicata il 5 settembre 2024) le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno rimesso la questione alla Corte Costituzionale.

Dopo aver escluso che, in tema di licenziamento, si possa pervenire ad attribuire rilevanza all’incapacità naturale del lavoratore attraverso una rilettura dell’art. 1335 c.c. o dell’art. 428 c.c., la riflessione della Corte è stata circoscritta, appunto, all’art. 6 della l. 604/66, che contiene, come viene ricordato nella stessa ordinanza, una disciplina che persegue l’obiettivo, ritenuto dal legislatore meritevole di tutela, di far emergere in tempi brevi il contenzioso sull’atto datoriale.

 Richiamando alcune precedenti pronunce, la Corte ha rammentato la particolare natura degli interessi contrapposti che vengono in rilievo rispetto all’impugnazione del licenziamento in quanto il recesso nel contratto di lavoro incide su diritti fondamentali della persona, più volte evidenziati dalla giurisprudenza costituzionale secondo cui “l’affermazione sempre più netta del «diritto al lavoro» (art. 4, primo comma, Cost.), affiancata alla «tutela» del lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35, primo comma, Cost.), si sostanzia nel riconoscere, tra l'altro, che i limiti posti al potere di recesso del datore di lavoro correggono un disequilibrio di fatto esistente nel contratto di lavoro”.

In un suggestivo passaggio, viene così ricordato che “il forte coinvolgimento della persona umana - a differenza di quanto accade in altri rapporti di durata - qualifica il diritto al lavoro come diritto fondamentale, cui il legislatore deve guardare per apprestare specifiche tutele.» (Corte Cost. 8 novembre 2018 n.194” e che “l’'esercizio arbitrario del potere di licenziamento…. lede l'interesse del lavoratore alla continuità del vincolonegoziale e si risolve in una vicenda traumatica, che vede direttamente implicata la persona del lavoratore”.

Le Sezioni Unite - si legge nella pronuncia – dubitano della legittimità costituzionale della norma nella parte in cui, facendo decorrere in ogni caso il termine di decadenza dalla data di ricezione della comunicazione del licenziamento, preclude l’azione al lavoratore licenziato che, in ragione dell’incolpevole stato di incapacità di intendere e di volere derivato da patologia fisica o psichica, non si sia attivato nel termine di legge e l’abbia fatto, una volta recuperata la piena capacità, tempestivamente rispetto a detto successivo momento temporale. In tale ipotesi, l’operatività del termine di decadenza finisce per valorizzare unicamente l’interesse della parte datoriale al consolidamento degli effetti dell’atto adottato e per comprimere oltre misura il diritto di azione del lavoratore, riferito al diritto al lavoro, che la Carta Costituzionale espressamente tutela agli artt. 24, comma 1, 4, comma 1, e 35, comma 1.

La scelta espressa dal legislatore di non riconoscere meritevole di tutela il lavoratore licenziato che non si attivi tempestivamente, pur a fronte di un atto che coinvolge fortemente la qualità della vita propria e familiare, si mostra irragionevole quando è riferita anche all’incapace che non abbia impugnato il recesso per l’assoluta incolpevole incapacità di comprendere e di autodeterminarsi.

Non operando in tal caso alcun bilanciamento, secondo la Corte, la previsione normativa si pone in contrasto con l’art. 3 Cost., sia sotto il profilo della ragionevolezza, sia con riferimento al principio di eguaglianza, non potendo la situazione dell’incapace essere equiparata a quella del soggetto che tale non è.

Vi sarebbe poi il contrasto con l’art. 32, comma 1, Cost. nonché, nei casi in cui la menomazione, seppure non permanente, sia duratura con gli artt. 117 e 11 Cost., perché si risolve in una discriminazione in danno della persona disabile, in violazione degli obblighi imposti dalla Convenzione O.N.U del 13 dicembre 2006, ratificata con legge 3 marzo 2009 n. 18, e dalla Direttiva 2000/78/CE, che impongono, fra l’altro, di assicurare al disabile l’esercizio dei propri diritti (art. 27, lett. c, della Convenzione) e di adottare misure adeguate per ovviare agli svantaggi provocati dalla applicazione di una disposizione che, seppure apparentemente neutra, determina una disparità con gli altri lavoratori.

Le Sezioni Unite hanno precisato che l’intervento additivo sollecitato non sarebbe neppure incoerente con la disciplina generale dettata in tema di decadenza dall’art. 2964 cod. civ. perché la norma, pur escludendo che possano operare le cause di sospensione della prescrizione, fa salve disposizioni speciali, disposizioni che il legislatore, in effetti, ha dettato con riferimento a singole azioni (artt. 245, 489 cod. civ.), in considerazione della particolare natura del diritto al quale il termine di decadenza si riferisce. Analoghe ragioni possono essere ritenute ricorrenti anche in relazione all’impugnazione del licenziamento, ossia ad un atto che coinvolge direttamente la persona del lavoratore e pone in discussione interessi che trascendono quelli meramente economici rilevanti nei rapporti contrattuali di durata.

È stata, poi, esclusa la sussistenza del rischio – che era stato paventato dal Pubblico Ministero nelle conclusioni - che venga minato il principio della certezza dei rapporti giuridici perché la diversa decorrenza del termine di impugnazione richiederà che nel processo la parte, oltre a dimostrare lo stato di assoluta incapacità di intendere e di volere sussistente al momento della ricezione della comunicazione del licenziamento, fornisca anche la prova della data in cui lo stesso è cessato.

Si attende, dunque, la valutazione della Corte Costituzionale in ordine ad una questione che, benché abbia riguardo a casi verosimilmente rari, ha una notevolissima importanza sistematica.

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