“Passato e futuro sono diversi. Cause precedono effetti. Il dolore segue la ferita, non la anticipa. Il bicchiere si rompe in mille pezzi e i mille pezzi non riformano il bicchiere (…) Il tempo non è una linea con due direzioni eguali. È una freccia, con estremità diverse”.
In questo modo Carlo Rovelli (cfr. ‘L’ordine del tempo’, p. 27) descrive lo scorrere del tempo, quel fluire che, inevitabilmente, è in grado di incidere anche sui diritti.
Nel nostro ordinamento giuridico, come in altri, i diritti si estinguono per prescrizione (cfr. art. 2934 c.c.) e l’effetto estintivo trova la sua causa proprio nell’inerzia del titolare protratta per un certo periodo di tempo.
Lo scadere del termine di prescrizione costituisce il momento in cui il bicchiere si rompe in mille pezzi (cit.), ed è dunque di fondamentale importanza conoscere quale sia il termine al quale è assoggettato il diritto in questione.
In particolare, se oggetto della pretesa sono le indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro, segnatamente del rapporto di agenzia, entro quale termine la pretesa dovrà essere avanzata?
Con una recentissima sentenza, la Corte di Cassazione (Cass. n. 14062 del 21 maggio 2021) ha affermato che tali indennità sono assoggettate alla prescrizione quinquennale ex art. 2945 n. 5 e non all’ordinario termine decennale.
Si tratta di un importante overruling della precedente, e più risalente, giurisprudenza di legittimità secondo la quale il termine prescrizionale riferito alle indennità discendenti dalla cessazione del rapporto sarebbe stato quello decennale.
Nella motivazione della sentenza, la Corte ha richiamato i principi enunciati in Cass. 15798/2008, rilevando come questa avesse affermato che, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, le indennità spettanti fossero assoggettate alla prescrizione quinquennale ex art. 2948 c.c., n. 5 e non all’ordinario termine decennale, “a prescindere dalla natura, retributiva o previdenziale, dell’indennità medesima, ovvero dal tipo di rapporto, subordinato o parasubordinato, in essere”, in ragione dell’esigenza di evitare le difficoltà probatorie derivanti dall’eccessiva sopravvivenza dei diritti sorti nel momento della chiusura del rapporto.
Come ha precisato la medesima Suprema Corte, difatti, già Cass. n. 10923/1994 aveva chiaramente escluso che l’art. 2948 c.c., n. 5 potesse essere interpretato in maniera restrittiva, nel senso della sua applicabilità unicamente ai crediti sorti nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato.
Al riguardo, in quella sede, la Cassazione aveva osservato, da un lato, e sotto un profilo sistematico, che il Libro V del Codice Civile (Del Lavoro) regola varie forme di attività lavorative e, in particolare, il lavoro subordinato (Titolo II), il lavoro autonomo (Titolo III) ed il lavoro subordinato in particolari rapporti (Titolo IV).
Dall’altro lato, la Corte aveva sottolineato la genericità della formula usata dal legislatore nell’art. 2948 c.c., n. 5 (“le indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro”), genericità che è stata ritenuta tanto più rilevante alla luce del fatto che le indennità di fine rapporto non sono previste solo nel rapporto di lavoro subordinato, ma, come è noto, anche in altre forme contrattuali, che del pari prevedono il regolamento di un’attività lavorativa (cfr. art. 1751 c.c.).
Sui tali premesse, di ordine sistematico e logico, si era concluso che l’art. 2948, n. 5 dovesse essere interpretato nel senso che la prescrizione quinquennale riguardava tutte le indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro, senza la limitazione - non prevista dal legislatore - a quelle relative al rapporto di lavoro subordinato.
La Suprema Corte ha espressamente voluto dare continuità a tale orientamento (che era stato ribadito, da ultimo, da Cass. 19 giugno 2018, n. 16139) reputandolo ora del tutto prevalente.
Cinque anni, dunque, è il termine entro il quale avanzare la pretesa, inscrivendola in quella freccia con estremità diverse.