Una lavoratrice impiegata presso un soggetto diverso dal proprio formale datore di lavoro adiva il Tribunale per veder accertata una fattispecie di somministrazione irregolare e conseguentemente dichiarato il suo diritto alla costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore.
Nel corso del predetto giudizio, per effetto della sottoscrizione di una conciliazione giudiziale ex art. 420 c.p.c., la lavoratrice rinunciava, in cambio dell’erogazione in suo favore di un corrispettivo, alla costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore, dichiarando altresì di aver definito ogni rapporto con la società utilizzatrice in relazione al petitum e alla causa petendi.
Successivamente, con altro ricorso, la lavoratrice adiva il Tribunale per vedere dichiarato il proprio diritto alla costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze della società utilizzatrice; ciò, sul presupposto che la conciliazione giudiziale intervenuta precedentemente avesse avuto ad oggetto diritto indisponibili e fosse quindi invalida ed inefficace. Sia il Tribunale che la Corte di Appello hanno rigettato la domanda della ricorrente.
Proposto il ricorso per Cassazione, la Suprema Corte ha innanzi tutto richiamato e trascritto alcuni principi di diritto già affermati con alcuni, propri precedenti (in particolare: Cass. 26 ottobre 2017, n. 25472 e Cass. 26 luglio 2022, n. 11107) nell’ambito dei quali la medesima Corte ha operato la distinzione fra la conciliazione giudiziale prevista dagli art. 185 e 420 c.p.c., che si caratterizza per l’intervento del giudice e per l’osservanza delle formalità di cui all’art. 88 disp. att. c.p.c., e la transazione, quest’ultima definita in termini di “negozio di diritto privato puro e semplice…anch’esso idoneo alla risoluzione delle controversie di lavoro qualora abbiano ad oggetto diritti disponibili”, che “non richiede formalità ad substantiam”.
Pertanto, con la pronuncia che qui brevemente si annota, la Suprema Corte ha precisato che la censura della ricorrente relativa alla nullità della conciliazione giudiziale, asseritamente derivante dalla natura indisponibile dei diritti che in quella sede erano stati rinunciati, è da ritenersi “infondata, atteso che proprio l’intervento di un organo pubblico giustifica l’ammissibilità di qualunque oggetto della conciliazione giudiziale. La ‘indisponibilità’ a cui si riferisce la ricorrente è quella negoziale, ossia l’impossibilità per il titolare del diritto di disporre mediante atti negoziali di autonomia privata, mentre quella in esame è stata una conciliazione giudiziale, ossia conclusa con l’intervento del giudice ex artt. 185 e 420 c.p.c.”. Viene quindi ribadita la validità della conciliazione giudiziale, anche se abbia ad oggetto diritti indisponibili; ciò perché l’ultimo comma dell’art. 2113 c.c. fa salve “quelle conciliazione nelle quali la posizione del lavoratore viene ad essere adeguatamente protetta nei confronti del datore di lavoro per effetto dell’intervento in funzione garantista del terzo (autorità giudiziaria, amministrativa o sindacale) diretto al superamento della presunzione di condizionamento della libertà di espressione del consenso da parte del lavoratore, essendo la posizione di quest’ultimo adeguatamente protetta nei confronti del datore di lavoro” (Cass. 26 luglio 2022, n. 11107).
Per un commento su una fattispecie analoga, decisa però dalla giurisprudenza di merito, si veda https://www.studioclaudioscognamiglio.it/si-puo-impugnare-la-conciliazione-sottoscritta-in-una-sede-sindacale-protetta/