La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, terzo comma, c.c., nella parte in cui non prevede come familiare anche il “convivente di fatto” e come impresa familiare quella cui collabora anche il “convivente di fatto” (sentenza n. 148 del 25 luglio 2024).
Dopo un breve ed interessante excursus storico, in ambito sociale, normativo e giurisprudenziale, della convivenza more uxorio, la Corte ha sottolineato che, sebbene questa costituisca un rapporto ormai entrato nell’uso, comunemente accettato, accanto a quello fondato sul vincolo coniugale, tale trasformazione della coscienza e dei costumi sociali “non autorizza la perdita dei contorni caratteristici delle due figure”: la diversità tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio, in ragione dei caratteri di stabilità, certezza, reciprocità e corrispettività dei diritti e doveri che nascono soltanto da tale vincolo, giustifica un differente trattamento normativo tra i due casi che trova il suo fondamento costituzionale nella circostanza che il rapporto coniugale riceve tutela diretta nell’art. 29 Cost.
Vi sarebbero, però, gli ‘aspetti particolari’. La Corte ha ricordato, al riguardo, che “in relazione ad ipotesi particolari, si possono riscontrare tra convivenza more uxorio e rapporto coniugale caratteristiche tanto comuni da rendere necessaria una identità di disciplina, che questa Corte può garantire attraverso il controllo di ragionevolezza imposto dall’art. 3 Cost.”
La Corte ha poi descritto la convergente evoluzione della normativa, della giurisprudenza costituzionale, comune ed europea, che ha dato piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto, evidenziando che permangono differenze di disciplina, ma che, quando si tratta di diritti fondamentali, “esse sono recessive e la tutela non può che essere la stessa sia che si tratti, ad esempio, del diritto all’abitazione (sentenza n. 404 del 1988), o della protezione di soggetti disabili (sentenza n. 213 del 2016), o dell’affettività di persone detenute (sentenza n. 10 del 2024)”.
In questo contesto, parimenti fondamentale è il diritto al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.), che, quando reso nel contesto di un’impresa familiare, richiede uguale protezione.
La disciplina dell’impresa familiare – a differenza di quella dell’impresa coniugale (art. 177, primo comma, lettera d, cod. civ.), che concerne specificamente il regime patrimoniale legale della comunione dei beni tra i coniugi – mira a tutelare il lavoro “familiare”, quale fattispecie intermedia tra il lavoro subordinato vero e proprio e quello gratuito, reso “affectionis vel benevolentiae causa”.
Come ricorda la Corte, questa esigenza di approntare una speciale garanzia del lavoro è stata realizzata, appunto, dall’art. 230-bis cod. civ.,secondo la scelta del legislatore della riforma del diritto di famiglia del 1975, con un ampio raggio di applicazione perché abbraccia non solo il coniuge e gli stretti congiunti dell’imprenditore, ma anche tutti i parenti fino al terzo grado e gli affini fino al secondo grado (elencazione alla quale deve ritenersi che si siano aggiunti, nel 2016, i soggetti legati da unioni civili).
Ma – osserva la Corte Costituzionale - anche il convivente more uxorio versa nella stessa situazione “in cui l’affectio maritalis fa sbiadire l’assoggettamento al potere direttivo dell’imprenditore, tipico del lavoro subordinato, e la prestazione lavorativa rischia di essere inesorabilmente attratta nell’orbita del lavoro gratuito”. Si smarrirebbe, in questo modo, l’effettività della protezione del lavoro del convivente che, in termini fattuali, non differisce da quello del lavoro familiare prestato da chi è legato all’imprenditore da un rapporto di coniugio, parentela o affinità.
È stata riconosciuta, pertanto, la violazione del diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.), in un contesto di formazione sociale, quale è la famiglia di fatto (art. 2 Cost.). Anche l’art. 3 Cost. è stato reputato violato, non per la sua portata eguagliatrice (restando comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente), ma per la contraddittorietà logica della esclusione del convivente dalla previsione di una norma posta a tutela del diritto al lavoro che va riconosciuto quale strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare (ancora, art. 2 Cost.).
La dichiarazione di illegittimità costituzionale è stata estesa in via consequenziale all’art. 230-ter c.c., che attribuisce al convivente di fatto una tutela dimidiata dal mancato riconoscimento del lavoro ‘nella famiglia’, del diritto al mantenimento, del diritto di prelazione nonché dei diritti partecipativi, e quindi significativamente più ridotta.