Con la pronuncia n. 2414/2022 la Suprema Corte di Cassazione ha ribadito la distinzione tra licenziamento intimato per motivo illecito determinante e licenziamento discriminatorio. Entrambi i licenziamenti sono nulli, pertanto le conseguenze sanzionatorie di tale nullità sono le medesime; tuttavia, ribadisce la Cassazione, ognuna delle due fattispecie presenta delle peculiarità che implicano alcuni riflessi sugli oneri probatori delle parti in causa.
Non è questa la sede che consente di delineare compiutamente la diversità tra le due fattispecie di licenziamento, venutesi a determinare per effetto di un’evoluzione dottrinaria, giurisprudenziale e normativa lunga diversi decenni. Ciò premesso, il licenziamento discriminatorio è quell’atto di recesso datoriale che è motivato, sia pure non esplicitamente, da una delle ragioni indicate dall’art. 15 L. n. 300/1970, dall’art. 2 D. Lgs. n. 215/2003 e dall’art. 2 D. Lgs. 216/2003; conseguentemente è discriminatorio il licenziamento intimato in ragione dell’appartenenza sindacale del singolo, della sua partecipazione ad uno sciopero o ad altra attività sindacale, per ragioni di razza o origine etnica, per ragioni inerenti la religione, il sesso, le convinzioni personali, gli handicap, l’età o l’orientamento sessuale. Un atto di recesso datoriale che sia fondato (lo si ribadisce, sia pure non esplicitamente) su una di queste ragioni “tipizzate” è nullo; e ciò anche nell’ipotesi in cui tale ragione discriminatoria concorra con una diversa ed effettiva causale di licenziamento, cioè anche nel caso in cui il recesso discriminatorio sia contemporaneamente fondato su di un motivo che è perfettamente riconducibile ad una delle due nozioni legali idonee a fondare il recesso datoriale, quali sono, come noto, la giusta causa e il giustificato motivo (nella sua duplice declinazione oggettiva e soggettiva).
Differisce dal licenziamento discriminatorio il licenziamento per motivo illecito determinante, che è una fattispecie di recesso la cui nullità deriva dal combinato disposto degli artt. 1345 e 1324 del Codice Civile. E’ questa una nullità di diritto comune che colpisce tutti quei tipi di recesso che sono fondati su di un motivo illecito non tipizzato dall’ordinamento. Tipico esempio di licenziamento intimato per motivo illecito determinante è il licenziamento ritorsivo, cioè il recesso che costituisce una reazione, o meglio, una ritorsione, all’esercizio di una legittima prerogativa del lavoratore. Anche in questo caso non è necessario che il motivo illecito sia stato posto esplicitamente a fondamento del recesso: la natura illecita del motivo può essere provata con il ricorso alla prova presuntiva. E’ necessario però – ha ribadito la Cassazione con la pronuncia che qui brevemente si annota – che, a differenza dell’ipotesi del licenziamento discriminatorio, il motivo illecito sia “determinante ed esclusivo”, vale a dire, rispettivamente, tale da “costituire l’unica effettiva ragione di recesso”, e che nel riscontro giudiziale “il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente”.
Pertanto, concludendo, l’errore di diritto in cui è incorsa la sentenza della Corte territoriale cassata dalla pronuncia n. 2414/2022 della Corte di Cassazione consiste nel non aver distinto l’ipotesi “in cui venga in rilievo un motivo ritorsivo e quella in cui si denunzi il carattere discriminatorio del licenziamento, in relazione al quale la esistenza di un motivo legittimo alla base del recesso datoriale non esclude la nullità del provvedimento ove venga accertata la finalità discriminatoria dello stesso”.