Il caso
Un lavoratore, con qualifica di operaio saldatore e continuativamente impiegato in azienda dal 1988, viene licenziato nel 2017 per giusta causa, allorquando il datore di lavoro viene a conoscenza dell’esistenza di una denuncia sporta dalla sua convivente per maltrattamenti, ingiurie e lesioni personali, e della conseguente misura degli arresti domiciliari cui il dipendente era stato inizialmente sottoposto dal G.I.P. (misura poi convertita nell’obbligo di firma).
Il licenziamento è stato ritenuto legittimo dal Tribunale di Cassino (tanto nella fase sommaria, quanto in quella di opposizione), mentre la Corte di Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, lo ha ritenuto illegittimo e ha disposto la reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi del quarto comma dell’art. 18 L n. 300/1970.
L’anzidetta pronuncia è stata impugnata con ricorso in Cassazione dal datore di lavoro; ha resistito con controricorso il lavoratore.
La c.d. giusta causa esterna
Con l’espressione giusta causa “esterna” si è soliti intendere una giusta causa di licenziamento che è integrata da fatti commessi dal lavoratore al di fuori del rapporto lavorativo (sia dal punto di vista temporale, che spaziale) che integrano una fattispecie di reato.
E’ principio consolidato quello secondo cui, affinché fatti costituenti reato possano avere rilevanza disciplinare, è necessario che siano tali da ledere gli interessi morali e/o materiali del datore di lavoro, oppure che siano tali da far venir meno la fiducia datoriale nell’esattezza dei futuri adempimenti della prestazione lavorativa. Infatti, alla luce della “non perfetta sovrapponibilità tra sistema penale e sistema disciplinare”, ha osservato la Corte di Appello di Roma (richiamando Cass n. 3076/2020) nel giudizio di secondo grado, affinché fatti che integrano un reato possano valere in termini di giusta causa di licenziamento, è necessario valutare il “disvalore oggettivo del fatto commesso nel contesto del mondo dell’azienda”, ossia verificare se gli illeciti penali in questione, “tenuto conto delle mansioni in concreto espletate dal lavoratore e dell’ambito lavorativo aziendali”, siano tali da compromettere l’elemento fiduciario.
La decisione fornita da Cass. n. 22077/2023
La Corte di Cassazione ribadisce la correttezza di tali enunciazioni di diritto, soggiungendo che la giusta causa di licenziamento può sussistere “anche in presenza di condotte extralavorative, a condizione però che abbiano un riflesso anche solo potenziale, ma comunque oggettivo, sulla funzionalità del rapporto, a causa della compromissione dell’aspettativa datoriale circa un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa”.
Da un punto di vista meramente fattuale, al fine di giustificare l’atto di recesso, la società aveva addotto il timore che il lavoratore, in ragione della sua indole violenta, potesse adottare comportamenti analoghi all’interno del contesto aziendale, soprattutto nei confronti di persone di sesso femminile.
Cionondimeno, afferma la Cassazione, il licenziamento nel caso di specie deve ritenersi illegittimo perché, tenuto conto delle mansioni meramente esecutive del lavoratore, dell’assenza di alcun precedente disciplinare relativo a condotte violente che sia rinvenibile nel pur lungo periodo che va dall’assunzione al licenziamento (circa trent’anni), le condotte in questione, per quanto deprecabili, non avevano avuto, invero, alcuna incidenza concreta sull’ambiente lavorativo, né alcuna eco mediatica.
La giusta causa di licenziamento, conseguentemente, viene ritenuta insussistente, ed anzi, ancor prima, il fatto contestato al lavoratore viene ritenuto privo di rilevanza disciplinare. Per tale motivo viene ritenuto applicabile il regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo di cui all’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970: ciò perché “il fatto materiale sussiste, ma, sul piano lavorativo, ossia della sua incidenza sul rapporto lavorativo, non può dirsi ‘illecito’, bensì ‘neutro’ e quindi non rilevante”.