La legittimazione ad agire delle ONLUS nei casi di discriminazioni collettive in ragione della nazionalità

Francesca Latino
15 Aprile 2025

Con una recente pronuncia, la Corte di Cassazione ha affrontato la questione della legittimazione attiva di una Onlus che si occupa della lotta alle discriminazioni che, insieme ad una cittadina albanese con permesso di soggiorno di lungo periodo, ha ritenuto di impugnare un bando di concorso per l’assunzione di assistenti giudiziari, nella parte in cui ha previsto che esso fosse riservato solo ai cittadini italiani.

Il Ministero convenuto sosteneva che la Onlus fosse priva della legittimazione attiva, non ricomprendendo le norme di cui agli artt. da 1 a 5 del d.lgs. n. 215/2003 la particolare ipotesi di discriminazione per nazionalità in relazione alla quale ammettere alcuna forma di legittimazione collettiva ad agire.

La Corte di Cassazione, sul punto, richiamando propri precedenti in termini, e confermando le decisioni dei giudici di merito, ha ribadito che, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata e fedele al diritto dell’Unione della disciplina del D. Lgs. n. 215/2003, anche nelle discriminazioni collettive per ragioni di nazionalità deve ritenersi sussistere la legittimazione ad agire in capo alle associazioni ed enti di cui al predetto decreto.

In particolare, la Corte ha ritenuto che “nella materia della tutela contro le discriminazioni collettive, la legittimazione ad agire in capo ad un soggetto collettivo non rappresenta un’eccezione ma una regola funzionale all’esigenza di apprestare tutela, attraverso un rimedio di natura inibitoria, ad una serie indeterminata di soggetti per contrastare il rischio di una lesione avente natura diffusiva e che perciò deve essere, per quanto possibile, prevenuta o circoscritta nella propria portata offensiva

Né, prosegue la Corte, potrebbe ritenersi corretto il ragionamento del Ministero che fa leva sull’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 215/2003 che prevede che «il presente decreto legislativo non riguarda le differenze di trattamento basate sulla nazionalità»: tale disposizione, infatti, ad avviso della Corte, non interferisce in alcun modo con le regole processuali in materia di discriminazioni di cui qui si discorre, anche a fronte delle specifiche disposizioni presenti nel medesimo testo di legge. Infatti, in base all’art. 5 dello stesso decreto, le associazioni come quella in causa alle quali si vorrebbe negare la legittimazione ad agire per discriminazioni collettive contrassegnate dal fattore della nazionalità sono quelle iscritte nell’elenco approvato con decreto ministeriale per le finalità programmatiche che le contraddistingue; le quali associazioni, in base al d.P.R. n. 349/1999, art. 52 devono essere qualificate dallo svolgimento di «attività a favore degli stranieri immigrati» e dallo «svolgimento di attività per favorire l’integrazione sociale degli stranieri» (non quindi testualmente in relazione alla razza o etnia).

Sarebbe, pertanto,  illogico e non coerente “con il complessivo quadro sopra delineato ritenere che le indicate associazioni possano agire in giudizio solo per le discriminazioni per razza o etnia e non per il fattore della nazionalità che serve a qualificarle; ciò porterebbe ad ipotizzare che la legittimazione ad agire per un certo tipo di discriminazioni (razza o etnia) sia stata conferita ad enti che si occupano di un fattore di discriminazione che viene ritenuto dall’ordinamento del tutto differente, di diverso contenuto e rilevanza (come appunto la nazionalità straniera)”.

Quanto al merito della vicenda, la Corte ha confermato anche il giudizio sulla natura discriminatoria dell’art. 3 del bando di concorso del Ministero, nella parte in cui limitava l’accesso alla pubblica selezione ai soli cittadini italiani, escludendovi di conseguenza i cittadini UE, i cittadini stranieri in possesso dei requisiti previsti dall’art. 38 d.lgs. n. 165/2001, i titolari di carta blu e i familiari extra-UE di cittadini italiani.

La Corte di Cassazione, in particolare, ha sottolineato la correttezza del ragionamento svolto dai giudici di merito laddove hanno affermato che la legge italiana (in particolare l’art. 38 comma 1 del d.lgs. n. 165/2001, come modificato dall’art. 7, comma 1, lett. b, L. 6 agosto 2013, n. 97) limita la c. d. “riserva di nazionalità” nell’accesso ai pubblici uffici soltanto in relazione a quei lavori che comportano l’esercizio di poteri pubblici o attengono alla tutela dell’interesse nazionale, da interpretare, secondo la giurisprudenza eurounitaria, in maniera restrittiva; al contrario, alla figura dell’assistente giudiziario non può essere ricondotto l’esercizio di siffatti poteri, operando tale figura sulla base di istruzioni, in collaborazione in altrui compiti di natura giudiziaria, contabile, tecnica o ammnistrativa, che non involgeva direttamente o indirettamente funzioni decisionali esaurendosi in compiti meramente ausiliari e privi di discrezionalità, sotto la vigilanza e la direzione del magistrato.

Nella pronuncia in esame, la Cassazione ha riservato ampio spazio alle decisioni della Corte di giustizia Europea che ha in più occasioni precisato, con estremo rigore, i confini e i limiti entro i quali gli Stati membri possono applicare la c.d. ‘eccezione di nazionalità’ di cui al paragrafo 4 dell’art. 45 del TFUE.

La Corte di Giustizia si è anche “interrogata sul fatto se, al fine di applicare legittimamente la “riserva di nazionalità”, debba trovare applicazione il c.d. “criterio del contagio” (secondo cui è sufficiente che la figura di che trattasi eserciti anche un solo potere di carattere pubblicistico nel complesso dei compiti attribuiti), ovvero se debba trovare applicazione il diverso “criterio della prevalenza” (secondo cui è invece necessario che i poteri di matrice pubblicistica, autoritativa e coercitiva assumano valenza prevalente in relazione al complesso dei compiti attribuiti)”: ebbene, la Corte di giustizia ha risolto la questione nel secondo dei sensi richiamati, affermando che “è necessario pure che tali poteri siano effettivamente esercitati in modo abituale da detto titolare e non rappresentino una parte molto ridotta delle sue attività”.

Alla luce delle premesse svolte, la Corte ha concluso nel senso che la figura dell'assistente giudiziario, svolgendo compiti meramente ausiliari e preparatori all'esercizio dei pubblici poteri, sempre sulla base di istruzioni e in collaborazione con altri, senza autonomia decisionale, non rientra tra le posizioni per cui è giustificata la riserva di nazionalità. La previsione del bando che limita l'accesso ai soli cittadini italiani ha pertanto natura discriminatoria e contrasta con l'art. 45 TFUE.

Infine, la Corte di Cassazione ha confermato la correttezza della decisione della Corte d’Appello nella parte in cui ha riconosciuto il danno non patrimoniale conseguente alla discriminazione collettiva liquidandolo in via equitativa, avendo il giudice di merito indicato specificamente i criteri utilizzati, come l'ampiezza della platea dei potenziali discriminati e la rilevanza del profilo professionale oggetto della selezione.

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