La normativa whistleblowing si limita a scongiurare conseguenze sfavorevoli, limitatamente al rapporto di lavoro, per il segnalante che acquisisca, nel contesto lavorativo, notizia di un'attività illecita, mentre non fonda alcun obbligo di attiva acquisizione di informazioni, autorizzando improprie attività investigative, in violazione dei limiti posti dalla legge. Ne consegue che la medesima normativa non costituisce un’esimente per gli autonomi illeciti commessi dal lavoratore segnalante.
Il principio è stato evidenziato dalla Cassazione (sent. 27 giugno 2024, n. 17715) in relazione ad un caso di licenziamento disciplinare di una dipendente statale giustificato dall’utilizzo improprio dell’istituto del whistleblowing. La lavoratrice aveva inoltrato a vari destinatari il modello per la segnalazione di condotte illecite con il quale aveva denunciato la sottrazione di fondi pubblici da parte del Direttore; inoltre, ella aveva registrato occultamente una conversazione avuta con un collega, pubblicandone poi alcuni stralci su un social network, senza autorizzazione e prospettando i fatti in maniera ‘capziosa’ al fine di far sorgere sospetti.
La Corte d’appello aveva escluso la sussistenza di una scriminante difensiva per la condotta della lavoratrice ed aveva confermato la legittimità del licenziamento. In particolare, la Corte territoriale aveva rilevato l’utilizzo improprio dell’istituto del whistleblowing (atteso che l’invio della segnalazione era stato fatto senza garantire la segretezza della stessa e del nominativo della segnalante) ed aveva osservato che l’intento della segnalazione non era stato quello di agire a tutela della p.a., bensì quello di screditare il collega, con conseguente esclusione delle tutele di cui all’art. 54-bis d.lgs. 165/2001.
La lavoratrice licenziata aveva così proposto il ricorso per cassazione, lamentando la mancata applicazione della tutela dettata per i whistleblower.
La Corte, però, non ha condiviso le tesi proposte dalla ricorrente
In primo luogo, in relazione alla registrazione della conversazione, la Cassazione ha ricordato che, nell'ambito dei rapporti di lavoro, la registrazione di conversazioni tra un lavoratore ed i suoi colleghi, all'insaputa dei conversanti, configura una grave violazione del diritto alla riservatezza, a meno che la registrazione non si sia resa necessaria per difendere un diritto in giudizio, purché l'utilizzazione avvenga in funzione del perseguimento di tale finalità e per il periodo di tempo strettamente necessario (ne avevamo parlato in Si può registrare una conversazione tra colleghi?).
Tuttavia, nel caso in esame, secondo la Corte, la registrazione, non poteva assumere la valenza di una scriminante difensiva “al fine di tutelare la propria posizione in azienda e di precostituirsi mezzi di prova nelle sedi processuali”.
E, allora, sebbene una registrazione di conversazioni tra un dipendente e i suoi colleghi presenti, all'insaputa dei conversanti, non sia, appunto, in assoluto abusiva e illegittima, ben potendo rientrare nell'ambito della protezione fornita dall'art. 54-bis, affinché ciò avvenga occorre una necessità difensiva, “nel senso che il dato raccolto di nascosto sia ad esempio pertinente ad una difesa incentrata su un intento di rappresaglia per effetto della segnalazione, da sostenere nel processo ed il mezzo utilizzato non ecceda l'esercizio di tale diritto di difesa”.
Né, secondo la Cassazione, la scriminante di cui all'art. 54-bis potrebbe essere estesa fino a ricomprendere l'ipotesi del lavoratore che effettui di propria iniziativa indagini e violi la legge per raccogliere prove di illeciti nell'ambiente di lavoro, operando la stessa solo nei confronti di chi segnala notizie di un'attività illecita senza che sia ipotizzabile una tacita autorizzazione a improprie e illecite azioni di indagine.
La Cassazione ha poi ricordato quale sia la duplice ratio del whistleblowing, consistente da un lato, nel delineare un particolare status giuslavoristico in favore del soggetto che segnala illeciti e, dall'altro, nel favorire l'emersione, dall'interno delle organizzazioni pubbliche, di fatti illeciti, promuovendo forme più incisive di contrasto alla corruzione.
L’illegittimità del licenziamento è stata, dunque, condivisa dalla Cassazione. Sul punto, la Corte ha richiamato il principio evidenziato da Cass. 9148/2023 (per un approfondimento, si veda La segnalazione di una condotta illecita del collega sana l’illecito disciplinare del lavoratore?) in virtù del quale la normativa di tutela del dipendente che segnali illeciti altrui (c.d. whistleblowing) “salvaguarda il medesimo dalle sanzioni che potrebbero conseguire a suo carico secondo le norme disciplinari o da reazioni ritorsive dirette ed indirette conseguenti alla sua denuncia, ma non istituisce un esimente per gli autonomi illeciti che egli, da solo o in concorso con altri responsabili, abbia commesso, potendosi al più valutare il ravvedimento operoso o la collaborazione al fine di consentire gli opportuni accertamenti nel contesto dell'apprezzamento, sotto il profilo soggettivo, della proporzionalità della sanzione da irrogarsi nei confronti del medesimo”.
Si precisa, per completezza, che la direttiva (UE) 2019/1937, attuata con il d.lgs. 24 del 10 marzo 2023, tra le altre cose, ha abrogato l’art. 54 bis del d.lgs. n. 165/2001 richiamato.