La nullità del licenziamento discriminatorio non è esclusa anche in caso di motivo economico

Stefano Guadagno
22 Gennaio 2025

La nullità del licenziamento discriminatorio discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno nonché di diritto europeo sicché non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c.

Ne consegue che la natura discriminatoria può essere esclusa dalla concorrenza di un'altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico.

Questo il principio affermato dalla Cassazione, Sezione Lavoro, nella ordinanza n. 460 del 9 gennaio 2025.  

La vicenda trae origine dalla domanda di nullità, per discriminatorietà, del licenziamento, giustificato dalla soppressione del posto di lavoro, proposta da una lavoratrice affetta da handicap grave.

I giudici del merito avevano rigettato la domanda proposta dalla lavoratrice, escludendo la natura ritorsiva del licenziamento, a seguito dell'accertamento dell'esistenza di una ragione di natura organizzativa posta a base del provvedimento datoriale. Sia il Tribunale che la Corte d’Appello hanno poi ritenuto non allegate circostanze idonee a connotare di discriminatorietà l'intimato licenziamento sotto.

L’ordinanza in esame – dato per acquisito che lo stato di salute della ricorrente integrasse la nozione eurounitaria di disabilità di cui alla direttiva 2000/78/Ce - muove dalla ricognizione della disciplina diretta a garantire la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

In particolare, si rammenta la distinzione tra discriminazione diretta e indiretta tracciata dall’art. 2 D.Lgs. 216/03, a norma del quale, si ha:

a) discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età, per nazionalità o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga;

b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o nazionalità o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”.

La Corte riconduce alla nozione di discriminazione per handicap, “il trattamento pregiudizievole posto in essere da un datore di lavoro verso un lavoratore in ragione del fattore di rischio di cui egli sia portatore”. Aggiunge quindi che “il concetto di discriminazione comporta la lesione del principio di parità affermato dall'art. 1 del D.Lgs. 216/2003, perché determina sempre una differenza fra il trattamento svantaggioso che è stato riservato al lavoratore ed il trattamento che gli sarebbe stato riservato se la sua qualità personale, considerata dalla legge come un fattore discriminatorio, non avesse inciso oggettivamente sulla scelta sottesa all'atto datoriale”.

Fatta questa premessa, l’ordinanza rammenta che la giurisprudenza di legittimità, a partire dalla sentenza n. 6575 del 5 aprile 2016 è consolidata nell’affermare che “La nullità del licenziamento discriminatorio discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno, quali l'art. 4 della L. n. 604 del 1966, l'art. 15 st.lav. e l'art. 3 della L. n. 108 del 1990, nonché di diritto europeo, quali quelle contenute nella direttiva n. 76/207/CEE sulle discriminazioni di genere, sicché, diversamente dall'ipotesi di licenziamento ritorsivo, non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., né la natura discriminatoria può essere esclusa dalla concorrenza di un'altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico” (ancora di recente, negli stessi termini, Cass. n 13934 del 24).

L’ordinanza in esame ritiene di dover dare continuità a questo orientamento, per l’effetto accogliendo il primo motivo di ricorso, che censurava la sentenza d’appello per avere affermato che il licenziamento non potesse essere discriminatorio in ragione dell'esistenza dell'elemento forte del motivo riorganizzativo accertato nel giudizio.

La Corte passa poi all’esame del secondo motivo di ricorso, con cui era censurata la decisione d’appello per avere erroneamente ritenuto che l'atto discriminatorio non possa consistere nell'atto di licenziamento.

Sul punto, il Supremo Collegio osserva che, a fronte della deduzione che il licenziamento era stato comminato esclusivamente in ragione della disabilità della lavoratrice, il datore non aveva offerto alcuna giustificazione sul perché la scelta del manager da licenziare fosse caduta sulla ricorrente (tra le diverse posizioni di lavoro interscambiabili), pur essendo ella l'unica disabile tra i manager aziendali.

La Corte imputa inoltre alla sentenza di merito di non aver valutato, né valorizzato ai fini della natura illecita del licenziamento, la presenza di atti di discriminazione, accertati in giudizio, commessi subito dopo la comparsa della malattia e fino a poco tempo prima del licenziamento, pur essendo stati gli stessi posti a fondamento della condanna risarcitoria disposta nei confronti del datore di lavoro.

Va infatti considerato che, a norma dell'art. 2 D.Lgs. 216/2003, “sono, altresì, considerate come discriminazioni, ai sensi del comma 1, anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per uno dei motivi di cui all'articolo 1, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo"

Sviluppando questi rilievi la Corte ritiene accoglibile anche il terzo motivo di ricorso, che imputava alla sentenza d’appello di avere disatteso i principi in materia di riparto dell’onere probatorio, affermando che la lavoratrice non avesse allegato circostanze idonee a connotare di discriminatorietà l'intimato licenziamento.

L’ordinanza richiama il punto 4 dell'art. 28 del D.Lgs. 150/2011, a norma del quale “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l'onere di provare l'insussistenza della discriminazione. I dati di carattere statistico possono essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all'assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell'azienda interessata”.

La Corte d’appello - avendo spostato tutto l'onere di allegazione e prova a carico della lavoratrice - ha disatteso la regola di giudizio speciale desumibile dalla norma appena citata su cui la Cassazione ha affermato che “in tema di discriminazione indiretta nei confronti di persone con disabilità ai sensi della legge n. 67 del 2006, l'art. 28, comma 4, D.Lgs. n. 150 del 2011 (disposizione speciale rispetto all'art. 2729 c.c.) realizza un'agevolazione probatoria mediante lo strumento di una parziale inversione dell'onere della prova: l'attore deve fornire elementi fattuali che, anche se privi delle caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, devono rendere plausibile l'esistenza della discriminazione, pur lasciando comunque un margine di incertezza in ordine alla sussistenza dei fatti costitutivi della fattispecie discriminatoria; il rischio della permanenza dell'incertezza grava sul convenuto, tenuto a provare l'insussistenza della discriminazione una volta che siano state dimostrate le circostanze di fatto idonee a lasciarla desumere” (v. Cass. n. 9870 del 28 marzo 2022).

L’ordinanza, dunque, ribadisce che è “il datore di lavoro convenuto a dover dimostrare che il fatto non esista ovvero le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio, che si fosse trovato nella stessa posizione”.

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