La responsabilità del datore ex art. 2087 c.c. non costituisce un’ipotesi di responsabilità oggettiva

Maria Santina Panarella
25 Febbraio 2025

In materia di tutela della salute del lavoratore, l’art. 2087 cod. civ. non delinea un'ipotesi di responsabilità oggettiva del datore di lavoro, i cui obblighi, oltre a dover essere rapportati alle concrete possibilità della tecnica e dell'esperienza, vanno parametrati alle specificità del lavoro e alla natura dell'ambiente e dei luoghi in cui il lavoro deve svolgersi (ord. 18 febbraio 2025, n. 4166).

Questi principi, secondo la Corte, valgono in particolar modo quando vengono in questione attività che per loro intrinseche caratteristiche (svolgimento all'aperto, in ambienti sotterranei, in gallerie, in miniera, ecc.) comportano dei rischi per la salute del lavoratore (collegati alle intemperie, all'umidità degli ambienti, alla loro temperatura, ecc.), ineliminabili, in tutto o in parte, dal datore di lavoro.

Rispetto a questi lavori, i quali, ha precisato la Cassazione, comportano una “necessaria accettazione del rischio alla salute del lavoratore, legittimata sulla base del principio del bilanciamento degli interessi”, non è configurabile una responsabilità del datore di lavoro, se non nel caso in cui questi, con comportamenti specifici ed anomali, da provarsi di volta in volta da parte del soggetto interessato, determini un aggravamento del tasso di rischio e di pericolosità ricollegato indefettibilmente alla natura dell'attività che il lavoratore è chiamato a svolgere.

Nel caso specifico affrontato dalla Corte nella pronuncia citata, la Corte d’appello aveva accolto il gravame proposto dal Comune/datore di lavoro, rigettando la domanda avanzata da una lavoratrice che aveva chiesto il risarcimento dei danni per presunta violazione di norme di sicurezza tipiche e in generale dell’obbligo di prevenzione racchiuso nell’art. 2087 c.c., lamentando di aver sviluppato una malattia professionale riconosciuta dall’Inail.

La Corte territoriale, da quanto si legge nella pronuncia, aveva ritenuto che il datore avesse adottato tutte le cautele che la tecnica e la scienza suggerivano nel momento storico, considerato che, dalle risultanze di causa, era emerso che l'ente avesse avuto conoscenza di un possibile rischio specifico soltanto dal 2007, e che, da quel momento, la lavoratrice, oltre a seguire corsi di sicurezza, era stata sottoposta a sorveglianza sanitaria specifica e periodica.

La lavoratrice aveva censurato la sentenza di secondo grado per aver male interpretato la ‘norma di chiusura’ del sistema racchiusa nell’art. 2087 c.c. A suo dire, la Corte d’appello, pur dando atto della nocività delle mansioni, non aveva individuato fattori di rischio specifici nelle attività svolte.

La Cassazione ha reputato il motivo inammissibile. Secondo la Corte, la censura non individuava una specifica normativa precauzionale violata, limitandosi a fare leva sull’art. 2087 c.c. che i giudici di secondo grado, però – ha soggiunto la Corte - non avevano erroneamente interpretato né violato, avendo questi, invero, applicato in maniera corretta i principi sopra richiamati.

In tema di responsabilità del datore si richiama anche Responsabilità ex art. 2087 c.c.: come sono distribuiti gli oneri di allegazione e di prova tra datore e lavoratore?

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