In tema di mobbing, la responsabilità esclusiva di altro dipendente, il quale si trovi eventualmente in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, è configurabile solo ai sensi dell'art. 2043 c.c. e non a titolo contrattuale, essendo egli soggetto terzo con riguardo al rapporto di lavoro. Pertanto, la dimostrazione di tale responsabilità deve essere fornita applicando le regole previste per gli illeciti aquiliani, in particolare quelle sulla ripartizione dell'onere della prova, e la relativa azione si prescrive nel termine di cinque anni.
Questa è la conclusione alla quale è giunta la recente ordinanza della Corte di Cassazione (13 novembre 2024, n. 29310). In quel caso, il lavoratore aveva lamentato di aver subito condotte mobbizzanti da parte di una funzionaria che, secondo il ricorrente, avrebbe dovuto essere qualificata come datore di lavoro, in quanto avrebbe posto in essere i comportamenti dannosi in virtù dei poteri propri del datore di lavoro. La Corte territoriale, invece, secondo la prospettiva del lavoratore, aveva erroneamente qualificato la responsabilità per mobbing come aquiliana e non fondata sull’art. 2087 c.c.
La Corte di Cassazione, nel rigettare le censure del ricorrente, ha ricordato, in primo luogo, che l’art. 2087 c.c. si riferisce al datore di lavoro, ossia al soggetto con il quale intercorre il rapporto di lavoro del dipendente.
Il ricorrente, pertanto, - secondo la Suprema Corte - non poteva agire, ai sensi dell'art. 2087 c.c., nei confronti della controricorrente che era una funzionaria della Pubblica Amministrazione e che, quindi, agiva in base al rapporto di immedesimazione organica con l'ente. Al contrario, per la Corte, l'azione contrattuale avrebbe dovuto essere introdotta contro il Ministero della Giustizia, il quale era titolare del rapporto di lavoro.
Già in precedenza la Corte era giunta a simili conclusioni, pur senza enunciarle espressamente, in particolare laddove aveva qualificato la responsabilità del funzionario, in ipotesi di c.d. mobbing orizzontale, come contrattuale (Cass. n. 7097 del 22 marzo 2018 aveva reputato corretta la manleva non in ragione di una responsabilità del lavoratore ex art. 2087 c.c., ma perché lo stesso, con la propria condotta (molestia sessuale nei confronti di altra dipendente) era venuto meno ai doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, quali sono gli obblighi di diligenza e di fedeltà prescritti dagli artt. 2104 e 2105 c.c., e ai principi generali di correttezza e di buona fede di cui di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., letti anche in riferimento al principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione di cui all'art. 97 Cost., la cui osservanza riguarda non solo lo svolgimento della propria attività lavorativa, ma, tra l'altro, i rapporti con l'utenza e con gli altri lavoratori sul luogo di lavoro, così concorrendo a dare luogo ad una situazione che ha determinato la responsabilità ex art. 2087 dell’Amministrazione).
Anche Cass. 1109 del 20 gennaio 2020 aveva affermato che, per potere configurare il mobbing, al comportamento doloso del collega di lavoro deve accompagnarsi quello colposo del datore di lavoro, che, in violazione dell'art. 2087 c.c., non ponga in essere tutte le cautele necessarie ad evitare la nocività del luogo di lavoro in danno alla persona del proprio dipendente.
Il ricorso è stato rigettato in applicazione – con riferimento alla questione qui di interesse - del seguente principio di diritto:
“In tema di mobbing, la responsabilità esclusiva di altro dipendente, il quale si trovi eventualmente in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, è configurabile solo ai sensi dell'art. 2043 c.c. e non a titolo contrattuale, essendo egli soggetto terzo con riguardo al rapporto di lavoro. Ne consegue che la dimostrazione di tale responsabilità dovrà essere fornita applicando le regole previste per gli illeciti aquiliani, in particolare quelle sulla ripartizione dell'onere della prova, e che la relativa azione si prescriverà nel termine di cinque anni”.