Cass. civ. sez. lav., 6 febbraio 2025, n. 3045
Un lavoratore viene licenziato per sottrazione di beni aziendali. La condotta illecita è stata posta in essere dal medesimo nel piazzale antistante la sede dell’azienda, “in un’area aperta al transito di soggetti esterni, e non in locali interni riservati ai dipendenti” ed è stata conosciuta dal datore di lavoro tramite l’esame dei filmati delle videocamere installate all’esterno dei locali aziendali.
Il licenziamento viene impugnato dal lavoratore sulla base dell’assunto per cui l’impianto di videosorveglianza non rispettava i requisiti di cui all’art. 4 St. Lav. posto che la relativa installazione non era stata autorizzata, né dalle rappresentanze sindacali presenti in azienda, né dall’Ispettorato Territoriale del Lavoro.
Nel confermare la pronuncia della Corte territoriale che aveva riconosciuto la legittimità del licenziamento, la Cassazione evidenzia come l’impianto di videosorveglianza, essendo stato installato all’esterno dei locali aziendali, fosse destinato esclusivamente alla tutela del patrimonio aziendale: la prestazione lavorativa del lavoratore non era soggetta a controllo per il tramite di tale impianto, dal momento che egli era “semplicemente investito del raggio d’azione delle telecamere mentre svolgeva operazioni di carico all’esterno”. Pertanto, anche alla luce del principio espresso dalla CEDU (sentenza del 17 ottobre 2019, ricorsi n. 1874/13 e 8567/13) per cui il livello di privacy da tutelare è comunque minore negli spazi di lavoro aperti al pubblico rispetto a quello degli ambienti strettamente personali ed in considerazione altresì del fatto che “le riprese erano effettuate in aree visibili e accessibili al pubblico, senza ingerenze nella sfera privata del lavoratore”, che, peraltro, era dichiaratamente consapevole della presenza delle telecamere, la Corte ha concluso per la perfetta legittimità del recesso datoriale.
Quanto sopra, anche in considerazione del fatto per cui l’impianto di videosorveglianza era posto a presidio di aree isolate e facilmente soggette ad intrusioni di terzi, circostanze tali da escludere un intento datoriale di videosorveglianza sistematica dell’attività lavorativa dei dipendenti. Argomentazione quest’ultima che ha consentito al Supremo Collegio di ribadire la distinzione tra controlli difensivi in senso lato e controlli difensivi in senso stretto: i primi, soggetti alla disciplina di cui all’art. 4 Stat. Lav., sono controlli preventivi e generalizzati dell’attività lavorativa del personale dipendente, i secondi, invece, sono attivati a seguito di un fondato sospetto della commissione di un illecito di un singolo lavoratore. Ed è a quest’ultima tipologia di controlli – non soggetta ai limiti dell’art. 4, commi 1 e 2, Stat. Lav.[1] – che viene ricondotta la fattispecie concreta per escludere la illegittimità del licenziamento[2].
Quanto, infine, alla dedotta all’inutilizzabilità probatoria delle videoregistrazioni, il Collegio ha ribadito il principio – già affermato da Cass. 33809/2021 – per cui nel processo civile non esiste un divieto di utilizzabilità probatoria delle risultanze video così stringente come quello previsto nel processo penale, “dovendosi procedere ad un bilanciamento tra privacy del lavoratore e tutela dell’impresa, che deve avvenire secondo i principi di correttezza, pertinenza e non eccedenza, previsti dal D. Lgs. N. 196/2003”.
[1] Cfr. Cass. n. 25732/2021
[2] Sul tema dei controlli difensivi, sia consentito rinviare a https://www.studioclaudioscognamiglio.it/ancora-sui-controlli-difensivi-cass-n-18168-2023-ribadisce-alcuni-principi/ nonché a https://www.studioclaudioscognamiglio.it/controllo-del-lavoratore-a-distanza-quando-sono-legittimi-i-c-d-controlli-difensivi/