Come è noto, in considerazione dell’interesse generale alla composizione pacifica delle controversie di lavoro, l’art. 2113, 4° co. c.c., stabilisce che le sue disposizioni non si applicano alle conciliazioni intervenute nell’ambito, tra gli altri, di un verbale di conciliazione sindacale.
Nel nostro ordinamento, infatti, si reputa che l’assistenza sindacale offra adeguate garanzie di una consapevole e libera decisione del lavoratore di chiudere in via definitiva la controversia alle condizioni stabilite.
Risulta, allora, fondamentale capire cosa debba intendersi per “assistenza sindacale”.
La risposta data dalla giurisprudenza può dirsi pacifica laddove ritiene insufficiente la mera presenza del rappresentante sindacale.
Quello che occorre, secondo i Giudici di legittimità, è, piuttosto, una attiva partecipazione del medesimo rappresentante, con una effettiva opera di assistenza a favore del lavoratore, “per ripristinare una sua reale parità con l’impresa” (in questo senso, Cass. 3 settembre 2003, n. 12858; Cass. 3 aprile 2002, n. 4730).
Non a caso, già in anni ormai risalenti, è stata ritenuta invalida la conciliazione sindacale conclusa dal lavoratore con l’assistenza di un esponente di un sindacato diverso da quello al quale lo stesso lavoratore aveva ritenuto di affidarsi (Cass., 22 ottobre 1991, n. 11167).
Una recentissima ordinanza (n. 16154 del 9 giugno 2021) della Corte di Cassazione si è inserita nel solco tracciato dalla giurisprudenza citata.
In tale pronuncia viene, infatti, ribadito che le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto diritti del lavoratore previsti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi, contenute in verbali di conciliazione conclusi in sede sindacale, non sono impugnabili a condizione che l’assistenza prestata dai rappresentanti sindacali sia stata effettiva, così da porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura (vengono richiamate anche le precedenti Cass. 23 ottobre 2013, n. 24024 e Cass. 4 settembre 2018, n. 21617).
Tuttavia, premessa la necessaria effettività dell’assistenza del sindacalista al fine di poter essere considerata idonea a sottrarre il lavoratore “da quella condizione di inferiorità che, secondo la mens legis, potrebbe indurlo altrimenti ad accordi svantaggiosi”, la compresenza del rappresentante sindacale e del lavoratore al momento della conciliazione – secondo la Corte - lascerebbe presumere l’adeguata assistenza del primo, chiamato a detto fine a prestare opera di conciliatore per il conferimento di un mandato implicito del lavoratore necessariamente sottostante all’attività svolta.
Spetta, dunque, al lavoratore svolgere deduzioni ed offrire prova del fatto che il rappresentante sindacale, pure presente, non abbia prestato alcuna assistenza.
Se l’assistenza non è stata effettiva, vi sarà allora spazio per l’impugnazione.