Il Tribunale di Roma, con ordinanza del 28 luglio 2021 ha ritenuto legittima la sospensione del dipendente che non si è sottoposto al vaccino anti Covid 19, sino alla cessazione delle limitazioni imposte dal medico competente, a tutela della salute del lavoratore e del pubblico potenzialmente a contatto con il medesimo.
A quanto è dato apprendere dalla motivazione, il datore di lavoro aveva comunicato la sospensione dall’attività lavorativa ad una dipendente, addetta ad un villaggio turistico, a seguito del giudizio di idoneità con limitazioni (consistenti nel non poter entrare “in contatto con i residenti del villaggio”), espresso dal medico competente, in assenza di posizioni lavorative confacenti alla professionalità della ricorrente.
La lavoratrice ha impugnato il provvedimento, sostenendo di non essere soggetta ad obbligo vaccinale e che la sospensione avrebbe costituito un (illegittimo) provvedimento disciplinare conseguente al rifiuto della dipendente di sottoporsi al vaccino.
Il Tribunale di Roma ha escluso, innanzi tutto, che il provvedimento di sospensione disposto dal datore di lavoro integrasse una sanzione disciplinare, essendo invece connesso alla “parziale inidoneità alle mansioni della lavoratrice” espressa dal medico competente. Ha quindi concluso nel senso della legittimità, ed anzi doverosità, della sospensione del dipendente che non si è sottoposto al vaccino anti Covid 19, a tutela della salute e sicurezza dei lavoratori e dei terzi, di cui il datore è garante, ai sensi dell’art. 2087 c.c. e del D.Lg.s 81/2008. Il Giudice capitolino ha poi ritenuto legittima la sospensione del pagamento della retribuzione, essendo venuta meno la sinallagmaticità del rapporto, in assenza della prestazione lavorativa.
L’ordinanza in commento costituisce un ulteriore tassello nel dibattito giurisprudenziale circa le conseguenze sul rapporto di lavoro del rifiuto di sottoporsi al vaccino anti Covid, anche in assenza di disposizioni legislative che lo impongano.
Nel caso deciso dal Tribunale di Roma, infatti, la lavoratrice non era sottoposta all’obbligo vaccinale (invece previsto per gli operatori sanitari dall’art. 4, D.L. n. 44/2021: v. sul punto il contributo di Maria Santina Panarella, "Obbligo vaccinale covid per operatori sanitari ed esercenti professioni sanitarie: (per) ora la sospensione e il demansionamento dei no vax sono legge") né alla presentazione del green pass per l’accesso ai luoghi di lavoro.
La giurisprudenza che per prima ha affrontato la questione, con riguardo in particolare agli operatori sanitari, ha individuato nell’art. 2087 c.c. un obbligo in capo al datore di imporre al lavoratore la vaccinazione anti Covid, motivando sulla base necessità di tutelare l'interesse prevalente dei soggetti assistiti.
Il primo provvedimento risale all’ordinanza del Tribunale di Belluno del 19 marzo 2021, commentata sul nostro sito da Maria Santina Panarella nel contributo “Se l’operatore socio-sanitario si rifiuta di vaccinarsi contro il Covid – 19, la sua collocazione in ferie forzate è legittima”. In quel caso, era stata reputata legittima la decisione di una struttura sanitaria che aveva posto in ferie forzate alcuni operatori “no vax”.
Nello stesso senso si sono, più di recente, espressi il Tribunale di Verona, ord. 24 maggio 2021 e il Tribunale di Modena, ord. 19 maggio 2021, che hanno rigettato le domande, proposte in via d'urgenza, da operatri sociosanitari operanti presso RSA, collocati in aspettativa non retribuita in ragione del rifiuto di sottoporsi al vaccino anti Covid 19.
Il Tribunale di Roma, facendo leva sulle limitazioni imposte dal medico competente, si pone in una diversa prospettiva, che guarda all’incidenza della mancata copertura vaccinale sulla causa del contratto. In questa prospettiva, l’“ingiustificato contegno astensivo” del lavoratore, in quanto tale da porre in pericolo la salute propria e dell’utenza, determina l’inesigibilità della prestazione lavorativa, certificata dalle limitazioni fissate dal medico competente.
Occorre muovere dal referente normativo, e dunque dal D.Lgs. 81/08.
In particolare, ai sensi dell’art. 15, lett. m), rientra nelle misure generali di tutela della salute sui luoghi di lavoro, a carico del datore, “l'allontanamento del lavoratore dall'esposizione al rischio per motivi sanitari inerenti la sua persona e l'adibizione, ove possibile, ad altra mansione”. L’art. 20, poi, impone ad ogni lavoratore di“prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni”.
Sembrerebbe dunque potersi trarre il corollario, colto dal Tribunale di Modena, ord. 19 maggio 2021, che “la protezione e salvaguardia della salute dell’utenza rientra nell’oggetto della prestazione esigibile” in quanto la “tutela della salute dell’utenza penetra nella struttura del contratto tanto da qualificare la prestazione lavorativa”.
Sviluppando questi rilievi il datore sarebbe tenuto a sospendere il lavoratore no vax ove questi svolga attività a contatto con il pubblico. Questa considerazione sarebbe invero difficilmente conciliabile con l’apparato normativo a tutela della privacy del lavoratore, non essendo presente, allo stato, nel nostro ordinamento una disposizione di legge che imponga al dipendente di fornire informazioni circa il proprio stato vaccinale.
Sul punto, è intervenuto anche il Garante della Privacy, nell’ambito del recente Provvedimento del 22 luglio 2021 (avente ad oggetto l’ordinanza n. 75 del 7 luglio 2021 della Regione Siciliana, ove è stato tra l’altro previsto, all’art. 3, che tutti i dipendenti a contatto diretto con l’utenza siano “formalmente invitati” a ricevere la vaccinazione e, in assenza di questa, assegnati ad altra mansione).
L’Autorità ha premesso che i trattamenti di dati personali relativi allo stato vaccinale dei dipendenti pubblici e degli enti regionali, determinando limitazioni dei diritti e delle libertà individuali, possono essere introdotte solo da una norma nazionale di rango primario, previo parere dell’Autorità.
Ha quindi chiarito che il trattamento dei dati personali anche relativi alla vaccinazione dei dipendenti, può certamente essere effettuato dal solo del medico competente (art. 9, parr. 2, lett. h), e 3 del Regolamento GDPR; cfr. anche art. 2-sexies, comma 2, lett. u), del Codice in materia di Protezione dei Dati Personali), stante gli specifici limiti per il trattamento di tali dati da parte del datore di lavoro, ma ciò “deve comunque avvenire nei limiti e alle condizioni stabilite dalla richiamata disciplina di settore in materia di sicurezza sul lavoro”.
Le conclusioni cui è pervenuto il Tribunale di Roma, secondo cui è legittima la sospensione del dipendente che non si è sottoposto al vaccino anti Covid 19, sono perfettamente compatibili con questo quadro normativo, contemperando ragionevolmente le esigenze di tutela della salute con il diritto alla riservatezza del lavoratore.
Allo stato dell’arte, ed in attesa di un intervento legislativo che disciplini l’obbligo vaccinale, si può ritenere che, da un lato, la scelta del dipendente di non sottoporsi al vaccino, in assenza di un obbligo di fonte legislativa, non può legittimare l’adozione di provvedimenti disciplinari, dall’altro, il contegno del lavoratore che decida di non vaccinarsi, incidendo sulla oggettiva idoneità a svolgere determinate mansioni, impone, per il tramite delle prescrizioni del medico competente, la sospensione del lavoratore (ove non sia possibile l’assegnazione a mansioni compatibili), a tutela della salute del lavoratore stesso e di tutti i soggetti con cui può venire potenzialmente in contatto, come visto oggetto di uno specifico dovere di sicurezza in capo allo stesso prestatore di lavoro.