In materia di licenziamento giustificato dall’uso improprio dell’assenza per malattia, per contestare la correttezza della diagnosi medica, il datore di lavoro non deve necessariamente proporre querela di falso. Questo è quanto ha affermato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 30551/2024 pubblicata il 27 novembre 2024.
La Corte di appello, in riforma della sentenza di primo grado, aveva ritenuto illegittimo il provvedimento di licenziamento intimato nei confronti di una lavoratrice per uso improprio dell'assenza per malattia tale da far desumere la simulazione della malattia ovvero per comportamento contrario ai doveri di correttezza, buona fede e fedeltà aziendale.
Nel proporre ricorso per cassazione, la Società datrice di lavoro aveva lamentato, tra le altre cose, che la Corte territoriale avesse erroneamente affermato che il datore di lavoro che intenda contestare in giudizio la sussistenza della malattia del proprio dipendente dovesse proporre querela di falso con riguardo alla certificazione medica.
Nel decidere la questione, la Corte ha dapprima rammentato che, secondo un principio consolidato, durante il periodo di sospensione del rapporto determinato dalla malattia, permangono in capo al lavoratore tutti gli obblighi non strettamente inerenti allo svolgimento della prestazione. Tra questi, vi sono, come è noto, gli obblighi di diligenza e fedeltà (artt. 2104 e 2105 c.c.) nonché gli obblighi di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c.
Secondo la Cassazione, l’art. 2110 c.c., in deroga ai principi generali, riversa, entro certi limiti, sul datore di lavoro il rischio della temporanea impossibilità lavorativa dovuta a infermità: ne consegue che tale deroga deve essere armonizzata con i princìpi di correttezza e buona fede. Questi ultimi assumono rilevanza non solo sotto il profilo del comportamento dovuto in relazione a specifici obblighi di prestazione, ma anche in via generale, imponendo a ciascuna parte il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, anche a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge.
In tale prospettiva, assume peculiare rilievo l'eventuale violazione del dovere di osservare tutte le .cautele, comprese quelle terapeutiche e di riposo prescritte dal medico, atte a non pregiudicare il recupero delle energie lavorative temporaneamente minate dall'infermità, affinché vengano ristabilite le condizioni di salute idonee per adempiere la prestazione principale.
L'onere di provare che la malattia del dipendente era simulata ovvero che la diversa attività posta in essere dallo stesso fosse potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio incombe sul datore di lavoro il quale può avvalersi “di ogni mezzo di prova utilizzabile in giudizio per l'accertamento dei fatti, anche sollecitando il giudice ad esperire una consulenza tecnica d'ufficio ovvero ad attivare poteri officiosi ex art. 421 c.p.c. e il giudice, nel rispetto del criterio (tipico del rito del lavoro) del giusto contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale, deve valutare modalità, tempi e luoghi della diversa attività svolta dal dipendente in costanza di malattia, attribuendo rilievo, anche ai fini dell'elemento soggettivo, alla circostanza che si tratti di attività ricreativa o ludica ovvero prestata a favore di terzi; occorrerà poi esaminare le caratteristiche della patologia diagnosticata per certificare l'assenza per malattia; infine, occorrerà verificare se da tali elementi, eventualmente con l'ausilio peritale, scaturisca la prova che la malattia fosse fittizia ovvero che la condotta tenuta dal lavoratore fosse potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro al lavoro”.
La Corte ha così richiamato l'orientamento di legittimità per il quale il certificato redatto da un medico convenzionato con un ente previdenziale o con il Servizio Sanitario Nazionale per il controllo della sussistenza delle malattie del lavoratore è atto pubblico che fa fede, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che l'ha formato nonché dei fatti che il pubblico ufficiale medesimo attesta aver compiuto o essere avvenuti in sua presenza. Tuttavia, ha precisato che “tale fede privilegiata non si estende anche ai giudizi valutativi che il sanitario ha espresso in occasione del controllo in ordine allo stato di malattia e all'impossibilità temporanea della prestazione lavorativa”. Tali giudizi, infatti, - ha sottolineato la Suprema Corte - pur dotati di un elevato grado di attendibilità in ragione della qualifica funzionale e professionale del pubblico ufficiale e, quindi, di una particolare rilevanza sotto il profilo dell'art. 2729 c.c., consentono al giudice di considerare anche elementi probatori di segno contrario acquisiti al processo.
Nel caso di specie, secondo la Cassazione, la Corte territoriale aveva errato nel valutare solo il profilo dell’aggravamento della malattia durante l’assenza dal lavoro, senza approfondire l’aspetto relativo alla possibile simulazione della malattia ritenuta sussistente, dal consulente medico d’ufficio, sulla base della mera attestazione del medico di medicina generale. In altre parole, la Corte distrettuale – secondo il Giudice di legittimità – aveva erroneamente asserito che, per contestare l’esattezza di una diagnosi, fosse necessaria una querela di falso del certificato medico.
Il ricorso è stato accolto, la sentenza cassata, con rinvio alla Corte d’appello in diversa composizione.
In argomento, si richiama anche Che tipo di attività può svolgere il lavoratore assente per malattia? nonché Gli accertamenti investigativi svolti quando il lavoratore è in malattia sono legittimi? e Lo svolgimento di attività extra-lavorativa durante l’assenza per malattia può costituire illecito disciplinare: occorre, però, valutare il caso concreto.