Con un’ordinanza in data 24 giugno 2021 la Corte d’appello di Milano ha esteso l’ambito di applicabilità del procedimento ex art. 287 c.p.c. al caso di omessa pronuncia sulla domanda di condanna alla restituzione degli importi revocati ai sensi dell’art. 67, co. 2, l.f., non presupponendo tale statuizione un’attività di valutazione giudiziale.
Nel caso di specie, con la sentenza conclusiva del giudizio di merito, la Corte d’appello, nell’accogliere la domanda revocatoria, aveva omesso di pronunciarsi sulla domanda di condanna alla restituzione degli importi revocati.
La parte attrice in revocatoria, ritenendo che l’omissione non costituisse vizio della sentenza da censurare per mezzo del ricorso per cassazione, ha attivato il procedimento ai sensi dell’art. 287 c.p.c.
La Corte d’Appello ha accolto la richiesta del curatore, correggendo la sentenza.
La mancata pronuncia sulla domanda di condanna alla restituzione degli importi revocati, secondo il Collegio milanese, non costituisce un’omissione di carattere sostanziale presupponente una valutazione giudiziale, ma mera pronuncia accessoria di tipo restitutorio che non necessita di autonomi ed ulteriori apprezzamenti.
La domanda di condanna al pagamento dell’equivalente monetario degli importi revocati può essere pronunciata dal giudice anche d’ufficio in ogni caso in cui risulti impossibile la restituzione del bene e può essere proposta per la prima volta nel giudizio d’appello in quanto non nuova, ma ricompresa implicitamente nell’azione revocatoria stessa.
L’oggetto della domanda di revocatoria fallimentare non è il bene in sé, ma la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori che avviene mediante l’assoggettabilità ad esecuzione. La liquidazione del bene viene in considerazione solo per il suo valore.
A fondamento della propria decisione la Corte d’appello di Milano ha richiamato quell’orientamento della Cassazione (Cass. n. 2819/2016) che ha accolto un’interpretazione estensiva dello strumento previsto dall’art. 287 c.p.c. e che ha posto l'accento sull'esigenza di salvaguardare l'effettività del principio della ragionevole durata del processo che impone al giudice, anche nell'interpretazione dei rimedi processuali, di evitare comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione del giudizio, traducendosi, perconverso, in un inutile dispendio di attività processuali non giustificate.
L’orientamento estensivo ha ampliato l’ambito dei casi di omissione emendabili ai sensi dell’art. 287 c.p.c. facendo leva soprattutto sul carattere necessitato dell'elemento mancante, sulla mancanza di margini di discrezionalità del giudice della correzione e sul contenuto predeterminato della statuizione consequenziale.
In particolare, l’ampliamento dei casi di correzione è stato ammesso dalla giurisprudenza di legittimità in relazione a specifiche e determinate omissioni: quelle riguardanti l'istanza di distrazione delle spese di lite e la domanda di restituzione di quanto pagato in esecuzione della sentenza di primo grado. Entrambe domande sui generis, sottratte, per giurisprudenza pacifica, al regime delle preclusioni processuali, potendo essere proposte in un qualunque momento del processo, ed estranee al merito del giudizio (Cass., S.U., 16037/2010).
Degno di nota resta comunque l’indirizzo più restrittivo ricordato da Cass. n. 2819/2016, in forza del quale “il procedimento di correzione è invocabile quando sia necessario ovviare ad un difetto di corrispondenza tra l'ideazione del giudice e la sua materiale rappresentazione grafica, chiaramente rilevabile dal testo stesso del provvedimento mediante il semplice confronto della parte del documento che ne è inficiata con le considerazioni contenute in motivazione, cagionato da mera svista o disattenzione nella redazione del provvedimento e, come tale, percepibile ictu oculi” (cfr. Cass., S.U. 16037/2010; 4251/2020; 572/2019; 816/2000).