La Corte di Cassazione con sentenza n. 25977 del 16 novembre 2020 ha ritenuto sorretto da giusta causa il licenziamento irrogato nei confronti di un lavoratore autore di molestie sessuali nei confronti di una collega.
Come premesso dalla stessa sentenza in esame, i concetti di giusta causa e proporzionalità del licenziamento sono riconducibili alla categoria delle c.d. clausole generali “delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama”.
Muovendo da questa premessa non può sottacersi il particolare disvalore che viene attribuito, nella coscienza comune, alle condotte lesive della serenità dei lavoratori all’interno dell’ambiente di lavoro, con particolare riguardo alle donne vittima di comportamenti indesiderati.
Su queste premesse, la Corte ha ritenuto il giudizio valutativo operato dai giudici di merito, in sede di concretizzazione delle clausole generali della giusta causa e proporzionalità, coerente “rispetto agli "standards" conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale”.
Sviluppando questi rilievi il Supremo Collegio ha concluso nel senso che la condotta addebitata al lavoratore integra un inadempimento ai suoi obblighi contrattuali così grave da elidere irrimediabilmente il legame fducuario del rapporto di lavoro e che “il datore di lavoro, tenuto al rispetto dell'art. 2087 cc, non poteva non adottare una sanzione espulsiva a fronte della gravità dei fatti accertati”.
Negli stessi termini, già in passato, si è pronunciata la giurisprudenza di legittimità, evidenziando che “Le molestie sessuali sul luogo di lavoro, incidendo sulla salute e la serenità (anche professionale) del lavoratore, comportano l'obbligo di tutela a carico del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c., sicché deve ritenersi legittimo il licenziamento irrogato a dipendente che abbia molestato sessualmente una collega sul luogo di lavoro, a nulla rilevando la mancata previsione della suddetta ipotesi nel codice disciplinare e senza che, in contrario, possa dedursi che il datore di lavoro è controparte di tutti i lavoratori, sia uomini che donne, e non può perciò essere chiamato ad un ruolo protettivo delle seconde nei confronti dei primi, giacché, per un verso, le molestie sessuali possono avere come vittima entrambi i sessi e, per altro verso, il datore di lavoro ha in ogni caso l'obbligo, a norma dell'art. 2087 cit., di adottare i provvedimenti che risultino idonei a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, tra i quali rientra l'eventuale licenziamento dell'autore delle molestie sessuali” (così, Cassazione, 18 settembre 2009, n. 20272).
Tali considerazioni si impongono a maggior ragione ove si consideri l’astratto rilievo penale delle condotte imputate al lavoratore. Ferma restando l’autonomia tra procedimento penale e procedimento civile e i diversi presupposti, rispettivamente, della responsabilità penale e di quella disciplinare del lavoratore (Cass., 20 marzo 2017, n. 7127).
Sotto altro profilo, la sentenza in esame ha escluso che si ponga in contrasto con le previsioni dell’art. 4, L. 300 del 1970, nella versione antecendente alle modifiche introdotte dal D.Lgs. 185 del 2016, la condotta del datore di lavoro che, in forza di un controllo ex post sugli strumenti di lavoro in dotazione al lavoratore, verifichi un utilizzo abusivo degli stessi (nel caso di specie, concretizzatosi nell’accesso non autorizzato al conto corrente del marito della collega).
In particolare, la Corte ha rilevato che, nella fattispecie, si era trattato di “verifiche dirette ad accertare comportamenti illeciti e lesivi dell'immagine aziendale e costituenti, astrattamente, reato”, rientranti nella categoria dei c.d. controlli difensivi disposti in epoca successiva all'attuazione del comportamento addebitato al lavoratore, i quali - secondo un consolidato insegnamento del Supremo Collegio (v., di recente, Cass., Ord., 11 giugno 2018, n. 15094) - esulano dall’ambito di applicazione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori.
La sentenza in esame, richiamando Cass n. 10636 del 2017, ha quindi concluso che “non può ritenersi in alcun modo compromessa la dignità e la riservatezza dei lavoratori, atteso che non corrisponde ad alcun criterio logico-sistematico garantire al lavoratore, in presenza di condotte illecite sanzionabili penalmente o con sanzione espulsiva, una tutela maggiore di quella riconosciuta a terzi estranei all'impresa “.
Ed anche nella prospettiva di un equilibrato bilanciamento degli interessi in gioco si può senz’altro condividere il ragionamento proposto dal Supremo Collegio