Durante una battuta di caccia al cinghiale, uno dei cacciatori viene ucciso, colpito, per sbaglio, da un altro partecipante all’evento.
I congiunti della vittima citano in giudizio sia il soggetto autore del fatto, sia la compagnia di assicurazione, con la quale il primo aveva stipulato una copertura assicurativa per i danni eventualmente causati nel corso dell’attività venatoria.
La Società si costituisce in giudizio eccependo, in primo luogo, il difetto di copertura assicurativa, affermando che la stessa era da escludere per gli incidenti occorsi durante battute di caccia illegali, e che, nel caso di specie, si era svolta senza autorizzazione amministrativa e in una zona in cui era consentita solo quella individuale.
Il Tribunale, in accoglimento della domanda, riconosce la piena responsabilità dell’autore e condanna la compagnia a tenere indenne l’assicurato ritenendo coperto il rischio dedotto in contratto.
La Corte d’Appello conferma la decisione di primo grado, salvo accogliere una diversa quantificazione del danno riconosciuto agli eredi.
La Società propone ricorso per cassazione e la Suprema Corte, in una recente sentenza (n. 14549/2022 del 3 maggio 2022), con snodi argomentativi di particolare interesse, ha affrontato le seguenti questioni prospettate dalla ricorrente:
Per quanto riguarda il primo aspetto, secondo la Cassazione, la Corte territoriale avrebbe correttamente interpretato il contratto di assicurazione, sia dal punto di vista della scelta del criterio ermeneutico, sia in riferimento allo scopo del contratto di assicurazione “che mira ad escludere i danni derivanti dalla violazione di norme di sicurezza, e non già di norme di mera regolamentazione amministrativa o sportiva della caccia”.
Infatti, parte ricorrente aveva contestato la decisione impugnata nella parte in cui la stessa aveva ritenuto che la copertura assicurativa per contratto venisse meno solo nel caso di attività venatoria posta in violazione di leggi nazionali o regionali, ma non anche nell’ipotesi di attività venatoria esercitata in violazione di regolamenti provinciali.
Orbene, secondo la Cassazione, la Corte d’Appello avrebbe – correttamente - interpretato la regola contrattuale in base al canone ermeneutico previsto dall’art. 1363 c.c. che, come è noto, prevede che le clausole si interpretino le une per mezzo delle altre, secondo il significato complessivo dell’atto.
Inoltre, il termine ‘leggi’, di per sé, farebbe riferimento ad una normazione primaria statale o regionale alla quale non possono ricondursi i regolamenti provinciali, che quella natura non rivestono.
Tale conclusione, secondo la Suprema Corte, sarebbe confermata anche dallo scopo pratico delle parti considerato quale criterio ermeneutico.
La Cassazione ha richiamato, allora, lo scopo della norma violata, “nel senso che le leggi a cui fanno riferimento le parti, proprio perché si tratta di un contratto che mira a coprire i danni da attività venatoria, sono le leggi che pongono le condizioni di sicurezza dell'attività venatoria, e non quelle che si limitano a disciplinare o apporre una regolamentazione puramente amministrativa, o di altro scopo della attività di caccia al cinghiale”.
Nella fattispecie, le parti avrebbero violato la norma che prevedeva che per quella zona la caccia era ammessa solo in forma individuale e non collettiva, norma che non aveva lo scopo di evitare incidenti, ma che serviva soltanto a regolamentare la caccia consentendo l’esercizio collettivo in alcune zone ed in altre no.
Per quanto riguarda il presunto concorso di colpa del danneggiato, escluso dalla Corte territoriale, la Corte di Cassazione ha rammentato che l’accertamento dei presupposti per l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 1227 c.c., comma 2, - che esclude il risarcimento in relazione ai danni che il, creditore (o il danneggiato) avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza – integra un’indagine di fatto, come tale riservata al giudice di merito e sottratta al sindacato di legittimità, se sorretta da congrua motivazione (Cass. 3319/ 2020).
Di particolare interesse, è, infine, il passaggio della pronuncia dedicato alla censura per mezzo del quale era stata denunciata la violazione dei principi in tema di personalizzazione del danno biologico, con specifico riferimento al danno da lutto.
I giudici di merito avevano riconosciuto una maggiorazione del 50% del danno a favore della vedova, sulla base di una relazione peritale che aveva previsto la necessità per la danneggiata di elaborare il lutto ricorrendo a sedute di psicoterapia.
Secondo la ricorrente, invece, l’elaborazione del lutto era da considerarsi conseguenza normale della perdita di un congiunto, e, in quanto tale, non giustificava una maggiorazione del risarcimento, che, invece, presuppone conseguenze particolari o anormali dell'illecito.
La Suprema Corte ha ritenuto il motivo fondato. In particolare, secondo la Cassazione, la Corte di appello avrebbe ritenuto anormale il recupero del lutto, rispetto a ciò che normalmente avviene, sulla base di una indicazione del consulente tecnico che aveva previsto che il superamento di quello stato non potesse avvenire con il semplice passare del tempo, ma solo attraverso l’aiuto di una psicoterapia. Tuttavia, così facendo, la Corte territoriale avrebbe violato le regole di personalizzazione del danno, poiché il ricorso alle terapie non comporterebbe un eccezionale rimedio al danno, integrando, piuttosto, una tipica situazione di elaborazione del lutto. Era invece necessario motivare la ragione per cui il ricorso a quelle sedute di psicoterapia costituiva, nella fattispecie, una condizione eccezionale rispetto a quelle che normalmente conseguono all’illecito.