Una sola condotta mobbizzante del datore di lavoro ben può dare diritto al risarcimento del danno.
La Cassazione ormai ne è certa: solo questa può essere la conclusione corretta se si fa buon governo delle regole di diritto che vengono in rilievo in relazione alla tutela della personalità morale del lavoratore. Al di là della tassonomia e della qualificazione come mobbing e straining, quello che conta è che il fatto commesso, anche isolatamente, “sia un fatto illecito ex art. 2087 c.c. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell'ordinamento (la sua integrità psicofisica, la dignità, l'identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica)” (Cass. ord. 19 ottobre 2023, n. 29101).
La reiterazione, l’intensità del dolo, o altre qualificazioni della condotta, potranno incidere eventualmente sul quantum del risarcimento, ma nessuna offesa ad interessi protetti al massimo livello costituzionale – quali quelli poc’anzi rammentati – “può restare senza la minima reazione e protezione rappresentata dal risarcimento del danno, a prescindere dal dolo o dalla colpa datoriale, come è proprio della responsabilità contrattuale in cui è invece il datore che deve dimostrare di aver ottemperato alle prescrizioni di sicurezza”.
In effetti, come ha ricordato anche la Cassazione nella pronuncia sopra citata, è ormai noto l’orientamento della medesima Corte secondo cui lo straining rappresenta una forma attenuata di mobbing perché priva della continuità delle vessazioni, ma pur sempre riconducibile all’art. 2087 c.c., con la conseguenza che, se viene accertato lo straining e non il mobbing, la domanda di risarcimento del danno deve essere comunque accolta (si vedano, tra le più recenti, Cass. 23 maggio 2022 n. 16580, Cass. 11 novembre 2022 n. 33428).
Nel caso affrontato dalla Corte, il giudice d’appello aveva negato l’illiceità della condotta datoriale ritenendo che si era trattato di un episodio isolato, che esulava dalla sistematicità di una condotta vessatoria persecutoria o discriminatoria protratta nel tempo, così negando qualsiasi tutela risarcitoria al lavoratore. E, per la Cassazione, questo è un chiaro esempio di mal governo delle regole di diritto sopra ricordate.
La Corte ha poi evidenziato il valore dirimente dell’ “ambiente lavorativo stressogeno’ quale fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto “la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087 c.c.”(Cass., ord. 7 febbraio 2023, n. 3692). Si rammenta, per completezza del quadro espositivo, che la Corte di Cassazione, con una recente, interessante ordinanza (la n. 25191 del 24 agosto 2023), era già tornata a parlare del danno da stress da lavoro, precisando chiaramente che il relativo risarcimento deve comprendere anche il danno morale (si veda, su questo sito, l’approfondimento Anche il danno morale va risarcito nell’ambito della liquidazione del danno professionale