Responsabilità sanitaria: che valore ha la cartella clinica incompleta?

L’eventuale incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l'esistenza di un valido nesso causale tra l'operato del medico e il danno patito dal paziente.

La Corte di Cassazione è tornata a parlare del valore della cartella clinica incompleta (ordinanza, n. 16737 del 17 giugno 2024), ricordando che il principio che opera in questo caso è quello della vicinanza alla prova: in tema di responsabilità medica, la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, al quale, in virtù del principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato.

I fatti posti alla base della pronuncia

A seguito del decesso della loro bambina avvenuto al momento del parto, i genitori avevano convenuto in giudizio l'Azienda Sanitaria chiedendone la condanna al risarcimento dei danni patiti. La donna, primipara ultra quarantenne, si era recata all’ospedale alla scadenza della quarantesima settimana di gravidanza per sottoporsi a un esame strumentale, all’esito del quale il medico di turno aveva consigliato il ricovero. Nei giorni seguenti, la donna era stata sottoposta a diversi esami sia di laboratorio che ecografici e cardiotocografici, finché, dall'ultimo tracciato, eseguito all'alba del 5° giorno successivo al ricovero, era emersa una scarsa variabilità del feto, e solo in quel momento era stato impartito l'ordine di effettuare immediatamente il cesareo durante il quale la bambina era nata senza vita.

Gli attori avevano allegato un comportamento gravemente negligente del personale medico ed un grave inadempimento dell'ospedale rispetto all'obbligo di custodia e cura della completezza della cartella clinica perché da essa non risultava il tracciato della penultima indagine cardiotocografica, eseguita la sera precedente al parto, la cui avvenuta esecuzione, oltre ad essere stata allegata dagli attori, era stata accertata anche nel corso delle indagini e del procedimento penale apertosi a carico dei sanitari.

Effettuata una CTU medico legale, il Tribunale adito aveva accolto la domanda.

L’azienda sanitaria aveva proposto appello. La Corte territoriale aveva riformato integralmente la sentenza di primo grado, rigettando la domanda risarcitoria. Prendendo in considerazione i tracciati effettuati fino al pomeriggio del giorno precedente a quello del decesso, la Corte d'appello aveva ritenuto che, fino a quel tracciato pomeridiano, non era emerso alcun dato indicativo di sofferenza fetale che consigliasse un intervento immediato né un dato tale da suggerire l'esecuzione di controlli più ravvicinati. Aveva così ritenuto che nessuna responsabilità fosse da ascrivere ai sanitari e che la morte per asfissia della bambina fosse derivata dal doppio giro del cordone, quindi da un fatto repentino e imprevedibile, non deducibile dagli esami strumentali condotti fino al pomeriggio precedente, che non avrebbe potuto essere evitato neppure mediante esami più frequenti.

In relazione alla allegata mancanza del tracciato asseritamente effettuato nella serata precedente, la Corte d'appello aveva affermato che nessuna indicazione di esso era contenuta nella cartella clinica, avente natura di certificazione amministrativa, e che, in ogni caso, l’accertamento effettuato nel procedimento penale dell'avvenuta esecuzione di quell'esame non riportato nella cartella clinica non poteva essere sufficiente, da solo, a dimostrare o anche fare presumere che il tracciato avesse dato indicazioni certe di sofferenza fetale patologica, impositive di un più tempestivo taglio cesareo.

Il motivo di ricorso per cassazione relativo alla natura della cartella clinica

I ricorrenti avevano proposto ricorso per cassazione, lamentando, in particolare, la violazione e falsa applicazione degli articoli 2699 e 2700 c.c. in ordine alla natura di certificazione amministrativa della cartella clinica e alla necessità per gli attori di impugnarne il contenuto tramite querela di falso.

La Corte ha accolto il relativo motivo, ricordando, in primo luogo, che le attestazioni contenute in una cartella clinica, redatta da un'azienda ospedaliera pubblica, o da un ente convenzionato con il servizio sanitario pubblico, hanno natura di certificazione amministrativa, cui è applicabile lo speciale regime di cui agli artt. 2699 e segg. c.c., “per quanto attiene alle sole trascrizioni delle attività espletate nel corso di una terapia o di un intervento, restando, invece, non coperte da fede privilegiata le valutazioni, le diagnosi o, comunque, le manifestazioni di scienza o di opinione in essa espresse”.

Da tali principi, secondo la Corte, discende che quel contenuto di fede privilegiata di cui sono dotate le positive dichiarazioni di attività svolte, inserite nella cartella, “non stende il suo ombrello protettivo fino a contenere l'implicita affermazione, avente anch'essa fede privilegiata, che null'altro è avvenuto, in relazione a quel paziente, per quel ricovero, che dovesse essere inserito all'interno della cartella clinica”. In relazione a ciò che non risulta dalla cartella clinica non è necessario alla parte che ne vuole far accertare una lacuna o una omissione proporre querela di falso, ma si apre la diversa problematica della lacunosa tenuta della cartella clinica e delle regole probatorie applicabili in relazione alla allegazione che una attività effettivamente svolta non risulti debitamente annotata nella stessa.

Qui si inserirebbe il principio, più volte affermato anche in altri settori in tema di responsabilità civile, secondo il quale la cartella fa fede fino a querela di falso solo in positivo, e in relazione ai dati obiettivi in essa contenuti. In relazione ai dati mancanti, che una delle parti assume dovessero essere riportati, la prova può essere fornita con ogni mezzo.

Pertanto, ha concluso la Cassazione, la Corte d’appello - assumendo che l'attendibilità e la completezza della cartella clinica potessero essere poste in discussione solo a mezzo della querela di falso - avrebbe errato nel non prendere in esame e a non valutare le risultanze istruttorie diverse dalla cartella clinica (prove testimoniali, svolte nel procedimento civile ed in quello penale) che avevano rilevato che tra l’esame pomeridiano (in cui il feto era in condizioni normali) e l’esame compiuto all’alba del giorno dopo (in cui il feto era già in condizioni critiche), ce ne era stato un altro in cui le difficoltà respiratorie e la scarsa mobilità del feto avevano cominciato già ad emergere.

In sintesi, la ricostruzione degli avvenimenti precedenti al parto, e la conseguente valutazione della correttezza o meno dell'operato dei sanitari, secondo la Suprema Corte, risulterebbe falsata dal fatto che si sia dato per inesistente (non essendo stata contestata con querela di falso la sua mancata risultanza in cartella clinica) il tracciato eseguito alle 20 della sera precedente al parto.

Il motivo di ricorso relativo al riparto dell’onere della prova in caso di cartella clinica incompleta

I ricorrenti avevano lamentato altresì l’errata applicazione delle norme in materia di riparto dell’onere della prova in riferimento al caso di una cartella clinica incompleta.

A questo riguardo, la Corte ha dapprima ricordato che, come precisato in precedenti pronunce, l’incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l'esistenza di un valido nesso causale tra l'operato del medico e il danno patito dal paziente solo quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l'accertamento del relativo legame eziologico, e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno.

La Cassazione ha così soggiunto che “la conformazione della condotta del sanitario nel senso di astratta idoneità alla causazione dell'evento dannoso è logicamente il primo elemento da vagliare, mentre soltanto se, al contrario, la condotta del sanitario fosse astrattamente ovvero assolutamente inidonea a causarlo, non occorrerebbe alcuna ulteriore ricostruzione fattuale. Entro i rigorosi limiti citati, la valenza dell'incompletezza della cartella, attraverso il mezzo presuntivo che integra il riflesso del principio della vicinanza probatoria, si risolve coerentemente a favore di chi deduce di essere stato danneggiato, giacché, diversamente, la stessa verrebbe a giovare proprio a colui che, rimanendo inadempiente rispetto al proprio obbligo di diligenza, ha determinato quella lacuna, che, diversamente opinando impedirebbe di accertare la sua responsabilità”.

Nel caso di specie, secondo la Cassazione, la Corte territoriale avrebbe completamente omesso di considerare la rilevanza che avrebbe potuto avere un tracciato ecotocografico intermedio tra quello pomeridiano, in cui secondo le allegazioni attoree il feto era vitale, e quello dell'alba del giorno dopo, in cui era già in stato preagonico. Da qui la conclusione secondo la quale la denunciata lacuna nella cartella, in questo caso, ove fosse positivamente accertata, sarebbe “rilevante ai fini della ricostruzione del nesso eziologico, con la conseguenza che l'opposto valore presuntivo derivante da quella carenza non può essere obliterato”.

La conclusione

Il ricorso è stato, dunque, accolto, con rinvio alla Corte d’Appello in diversa composizione che dovrà attenersi ai principi di diritto enunciati nell’ordinanza in esame.

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Maria Santina Panarella
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